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San Michele, grande Arcangelo: culti, culture e colture in Azzano e dintorni.

Disteso sulle pendici del Monte Cavallo, con il sipario dell'Altissimo a fianco e le vette del Carchio e del Folgorito degradanti fino a scoprire un lembo di marina, il Paese di Azzano è protetto dai venti, ricco di acqua, di boschi, di marmo e di fierezza.

Fiero appunto come il Patrono, San Michele, l'Arcangelo guerriero che calpesta sotto i calzari il maligno minacciandolo con la spada, l'amministratore della giustizia che pesa i meriti delle anime prima di accompagnarle, psicopompo al pari di Odino, alle soglie dell 'oltretomba, l'unico santo ad essere invocato nell'offertorio dei defunti e negli esorcismi.

Il culto di San Michele è di origine orientale e si articola in percorsi terrestri che permettono di definire una dimensione spirituale.

San Michele pertanto non è soltanto il comandante delle schiere celesti, il guaritore dal male, il vincitore su Satana, la guida nel passaggio dal mondo terreno all'eternità, San Michele è un percorso per diventare micaelici guerrieri guidati dal discernimento, animati da giustizia sul sentiero di luce.

Quanto all'origine fu l'imperatore Costantino che gli dedicò una particolare devozione erigendogli il Micheleion, un imponente santuario in Costantinopoli.

In Oriente Michele è venerato con il titolo di “archistratega”, che corrisponde al latino “princeps militiae celestis”. Alla fine del V secolo il culto si diffuse rapidamente in tutta Europa in seguito all'apparizione dell'Arcangelo sul Gargano. La tradizione riferisce che l'8 maggio del 490 l'Arcangelo sarebbe apparso al Vescovo di Siponto, san Lorenzo Maiorano, indicandogli una grotta da dedicare al culto cristiano. Ed è proprio quella grotta, a Monte Sant'Angelo, ad essere una sosta fondamentale del meta di una via di pellegrinaggio che, coincidente in parte con la via Francigena, attraversa l'Europa come una lancia dalla Cornovaglia ad Israele. La grotta aveva precedentemente accolto un culto mitreo. Il mito tramanda che Gargano cercò di uccidere un toro, così come lo aveva ucciso Mitra su comando del dio Sole, Michele, invece, impedisce la tauroctonia neutralizzando l'arciere a significare il corso della nuova religione che soppianta la vecchia.

La lancia, su cui i sette santuari sono posti a distanze che sembrerebbero studiate, muove dall'Irlanda, terra natale di San Colombano ( nella sua opera di evangelizzazione fondò molte chiese dedicate a San Michele ), attraversa la Francia, l'Italia e tocca la Grecia per raggiungere Israele.

Sette sono i luoghi di culto che si trovano su questa direttrice, sulla via del bene, : - Monastero di Skelling, Cornovaglia, - Monastero di Saint Michael Mount, Cornovaglia, - Mont Saint Michel, Normandia, - Sacra di San Michele, Piemonte, - Monte San Michele Arcangelo, Puglia, - Monastero di Symi, Grecia, -Santuario di Stella Maris, sul Carmelo, dedicato a San Michele Arcangelo, Israele.

I Longobardi, che in San Michele ritrovavano esaltata la dimensione guerriera e la memoria di Odino, contribuirono a diffonderne il culto in Italia dal Nord, dove Pavia riveste un ruolo di primaria importanza, fino a Monte San Michele Arcangelo in Puglia.

Da qui i pastori in transumanza in Abruzzo portarono sulla Maiella il culto dell'Arcangelo.

A Letto Manoppello, a 750 m.s.l.m., si conserva infatti in una grotta la statua del santo e l'8 maggio dal paese gli abitanti salgono in processione per partecipare alla messa. San Michele infatti si festeggia non soltanto il 29 settembre ma, in alcuni contesti, anche l'8 di maggio.

San Michele, invocato per la buona morte, è protettore dei paracadutisti, fabbricanti di bilance, schermidori, commercianti, maestri d'arme, poliziotti. Un santo battagliero, come il popolo di Azzano che in lui riconosce la necessità di difendere pugnacemente il bene ed in Maria, venerata in tre dedicazioni nell'oratorio, onora l'accoglienza, la solidarietà, il conforto nei momenti più dolorosi dell'esistenza

Nel XVI secolo, e forse prima ed anche in seguito, San Michele non deteneva tuttavia il monopolio del culto.

Esisteva in paese un altro oratorio dedicato a San Rocco, di cui si riscontra nel 1579 Giovanni di Matteo Priore, retto dall'omonima Confraternita.

Nessuna traccia resta dell'Oratorio, non un toponimo, non una marginetta.

Individuarne la probabile collocazione alla Polla, laddove oggi sorge la casa degli eredi Folini Luigi, discende dalla memoria resa da Licia Folini, classe 1927.

La signora Folini, a domanda, risponde prontamente indicando quel luogo e commenta che infatti e per questo motivo era una sosta obbligata delle Rogazioni.

Casa Folini sorge presso La Polla di Azzano, al bivio dove confluisce la viabilità che in quota si dirige verso l'Altissimo e la Garfagnana e raggiunge dalla parte opposta Basati; una collocazione che si confaceva al Santo protettore di pellegrini e viandanti e rispondeva anche alle esigenze di sicurezza e protezione dei Medici spesso in visita a Seravezza : Francesco I lo utilizzò come alloggio per i soldati che dovevano guardargli le spalle quando soggiornava a Palazzo.

La visita apostolica del 10 aprile 1584 del Vescovo di Luni Giovanni Battista Bracelli (al suo zelo si devono le informazioni utili al censimento degli edifici religiosi del tempo), riferisce una situazione disastrosa: il tetto, le pareti, il pavimento sono da rifare, imbiancare, aggiustare. Ad affumicare e deturpare le pareti sono stati i soldati lasciati come presidio in occasione delle visite del Granduca a Seravezza. E' fatto pertanto divieto di dare loro alloggio in futuro, pena la scomunica, per cui l'oratorio sarà aperto soltanto per la celebrazione della messa; quanto agli arredi si prescrive di inserire la pietra sacra nell'altare che sappiamo ornato di pitture decorose, munito di croce, di candelabri e di pedana; tale è invece l'indecenza dei paramenti che si ordina di procurare una pianeta rossa con la stola e il manipolo e un calice nuovo.

Il Vescovo nomina un nuovo Priore e sentenzia dettagliatamente anche in merito alla tenuta dell'amministrazione: gli effetti della Riforma Cattolica e del Concilio di Trento ( 1545-63 ) cominciano a farsi sentire anche in periferia.

Il culto di San Rocco rimanda ai viandanti ed alla peste, i primi bisognosi di protezioni dai rischi del clima, degli animali, degli uomini, la seconda ciclicamente in agguato.

E' un culto molto diffuso sulle Apuane e testimonia che non mancarono le epidemie, ne' il bisogno di affidarsi al Santo per superarle, ne' la gratitudine dei sopravvissuti. Oratori molto vicini a quello perduto in Azzano li troviamo a Giustagnana, a Pomezzana, a Cardoso, a Terrinca.

Il culto di San Michele invece è perdurato nel tempo ed è ben vivo in paese, testimoniato da ricorrenze e feste e, da un paio di mesi, dalla nascita di un Comitato per la sistemazione del tetto.

Fra le iniziative che caratterizzano i festeggiamenti per il Santo il 29 settembre, oltre alla solenne processione in occasione della triennale, sono i “sonetti” che, all'indicazione delle celebrazioni ed al testo dell'inno, accompagnavano, con lo scopo di affidarli alla protezione dell'Arcangelo, l'elenco dei bambini e delle bambine del paese, residenti o emigrati che fossero.

Il culto di San Michele ricorre anche nel gemellaggio che dal 1987 lega Azzano a tutti gli omonimi d'Italia, l'area geografica degli Azzano corrisponde a quella della dominazione longobarda ed alle vie e luoghi di venerazione dell' Arcangelo.

Anche l'analisi etimologica propone infatti sia una derivazione romana, dal nome proprio Actius o Accius, sia una longobarda da Zain ( j)a, che indica lo zaino, la stia.

Pur propendendo, in considerazione dei toponimi circostanti, per l'accredimento della derivazione latina, non si rigetta tuttavia in toto l' influenza longobarda suffragata anche da un altro suggestivo elemento: la leggenda della chioccia d'oro sepolta con il corteo di dodici pulcini nei Casali. Dell'antico villaggio, chiamato nelle carte Culiceta o Curiceta, è attestata l' esistenza fin dal XIV ( nel 1333 vi risiedeva Giovanni Vannucci proprietario di una fabbrica di ferro alla Desiata e vi era diffuso il cognome Baldassarri trasferitosi poi a Riomagno). Lo scomparso abitato, fra le cui macerie spunta un trono scolpito nella roccia, sorgeva su una pianura di fronte all' Altissimo. Fu abbandonato alla fine del XV secolo forse per la frigidità del luogo o perché desertificato da una pestilenza o perché distrutto da Castruccio Castracani. A questo proposito una terza fantasiosa etimologia vuole Azzano derivato da “uno sano”, in onore all'unico scampato alla strage riparatosi più in basso e fondatore del nuovo abitato.

Denominato oggi “Casali” per i ruderi perimetrali che fanno intuire e fantasticare su ciò che fu, il villaggio si declina nei documenti in nomenclature di ubicazione quali “al Persicheto” , “alle Piante”, “alla Selva” . Il sentiero che vi conduce e lo supera, “la Via degli Omini” perchè percorsa dai cavatori, propone , nelle vicinanze delle macerie , una bevuta curativa all' ”acqua dei malati ” ed una sosta alla suggestiva Grotta di Parà, costruzione incastonata in una gigantesca roccia.

Resta da stabilire se Curiceta ed Azzano per un periodo convissero al pari di altri due doppi villaggi: Pruno e Volegno, Terrinca e Levigliani (con buona pace degli attuali campanilismi ) o se Azzano sia stato edificato dopo la distruzione e l'abbandono del primo.

Ed indubitabilmente cuore di Azzano è la piazza, intitolata a San Michele, in cui convergono le vie che portano alle varie frazioni e località: il Pianello, Castello, il Tarsello, Cità e, più distanti, La Cappella, Venezia, il Colle, Comuneta, Castagnaia, la Grotta, le Prade, la Croce, La Mandria, la Bovalica, il Fiume, la Caldia e la Freddia, il Foresto...suggestioni di nomi che riassumono finalità ed usi, luoghi ricchi di fascino e di storia, primo fra tutti la Pieve Romanica di San Martino, chiesa madre dell'intera montagna seravezzina, riconsegnata di recente al culto dopo un lungo laborioso restauro.

La via della Cappella è per Azzano un'arteria fondamentale, quasi un prolungamento dell'abitato: nella Pieve si ricevono i sacramenti, si celebrano le solennità, si officiano i riti funebri, il cimitero è vicino.

Nel settembre 1959 la carrozzabile raggiunse il Paese di Azzano e i tempi di percorrenza si accorciarono; lentamente ma inesorabilmente i cortei a piedi per nozze o funerali non ebbero più ragione di essere e tramontarono anche alcune tradizioni quali i lanci di manciate di candidi confetti e lo straziante accompagnamento musicale della banda per l'ultimo viaggio da San Michele alla Cappella.

Al tempo i pranzi nuziali si cucinavano ancora in casa ed il lutto aveva dettagliate prescrizioni temporali che, oltre a negare svaghi e distrazioni, riguardavano anche vesti, fasce da manica e bottoni.

La carrozzabile, di collegamento fra tutti i paesi della montagna e il fondovalle, se non frenò l'esodo tanto ben descritto da Sirio Giannini in “Dove nasce il fiume”, favorì tuttavia il trasporto di malati, merci e mercanzie trasferite prima a spalla o a dorso di mulo, migliorando la qualità della vita.

E tocca alla via ricondurci a San Michele per osservare meglio l'Oratorio che, non privo di decoro, si pregia di un bel campanile quadrato scandente puntualmente le ore. Ad oriente si nota invece un corpo avanzato munito di scala di accesso che funzionò da asilo infantile; gestito dalle Carmelitane, accolse fin dai primi del Novecento l'infanzia zanese, ospitata poi dal 1959 nell' Asilo Cidonio.

All'interno lo spazio della chiesa di San Michele è tripartito: alla navata centrale si sommano due cappelle laterali. Una pietra di marmo murata sopra il portale principale ricorda il restauro e l'ampliamento del 1859, mentre l'altare datato 1721 e l'acquasantiera del Cinque-Seicento, permettono di ipotizzare che l'impianto originario risalga al XVIII secolo. Nel XVIII secolo, a seguito della richiesta di carbone e di legname, si registra nell'areale delle Apuane un incremento delle costruzioni, comprese quelle destinate al culto.

Di certo la cappella sinistra fu costruita nel 1910 e nello stesso anno provvista di un altare, dono della famiglia Henraux. Nella nicchia è adesso la statua della Madonna di Lourdes, nella cappella destra quella dell'Addolorata mentre il timpano dell'architrave riporta l'iscrizione “Mater dolorosa ora pro nobis”, ribadita dal monogramma dorato di Maria al centro del paliotto.

Il culto della Madonna si declina pertanto in San Michele in tre devozioni, particolarmente avvertita quella alla Madonna del Cavatore, la cui immagine è presente in chiesa in copia. L'originale, da fine agosto del 1979 si trova nella cappella-santuario della Polla, mentre un'altra copia è stata ricollocata il 15 ottobre 2017 alla Tacca Bianca per iniziativa di Paola Tommasi, nipote di Leone, l'artista che la realizzò in marmo.

La nascita della venerazione della Madonna del Cavatore merita un approfondimento. La cronaca dei fatti resa da Don Giovanni Dini, che ne fu l'ideatore, riferisce in merito alla nascita del progetto ed alla sua realizzazione in collaborazione stretta con Leone Tommasi che la scolpì: “ Leone veniva alla Cappella per una visita al Cimitero dove era sepolto il padre, e per stare un po' in canonica , dove non mancava un buon minestrone fatto dalla mia mamma e i ciacci lavorati da lui stesso e arricchiti da una fresca ricotta. Quando dopo usciva di casa restava un po' a contemplare il Monte Altissimo dalle forme maestose, imbiancato di polvere bianca lasciata dalle scaglie e dai pezzi inutili gettati dai cavatori della Tacca Bianca. Anch'io guardavo quel monte con ammirazione.

Mi appariva come una grande mamma seduta, le braccia sui ginocchi e un grande cuore aperto ( la Tacca Bianca ) per un alimento amaro e sofferto dei suoi figli.

Un giorno del mese di aprile mi venne il desiderio di salire su quella cava ( don Dini era arrivato da pochi mesi alla Cappella ). Mi recai al Palazzo della Ditta Henraux e, dopo aver convinto la guardia, con la stessa mi recai alla funicolare e, insieme, con coraggio, arrivammo sul piazzale in cima......( omissis )”

Coi cavatori feci il giro della cava. Mi spiegarono come avvenivano le varate, come veniva lavorato il marmo e soprattutto come con la lizza i blocchi venivano calati e portati al poggio di caricamento. Mi fu ricordato anche che un tempo all'inizio della cava c'era una piccola immagine della Madonna o di un santo che non ricordo.

Mi trattenni lassù circa un'ora, poi ripartii per raggiungere a piedi la foce e di qui ridiscendere al paese di Azzano per altra strada. La notte, per un'improvvisa burrasca mi destai, e non fui più capace di riprendere il sonno: nel dormiveglia pensavo a tutto il cammino della giornata e in modo particolare alla visita della “Tacca bianca”, ai cavatori e a quell'immagine a cui avevano fatto cenno. Fu proprio in quella notte che ebbi l'idea di fare la “Madonna del Cavatore” e mettere l'immagine lassù dove Michelangelo aveva fatto scavare il marmo per la Pietà ed altre sculture. Decisi di parlarne con Leone.

Al mattino partii per Pietrasanta e al Tommasi raccontai della mia gita all'Altissimo e del desiderio che mi era venuto: la Madonna del Cavatore. Leone rimase entusiasta dell'idea e mi disse: ”Si fa! Oggi butto giù il disegno, lo guardi bene, se ti piace lo mettiamo in opera.” Due giorni dopo il disegno era fatto, lo guardai e riguardai, poi dissi a Leone: “Più lo guardo, più mi piace, il disegno è bellissimo!” Da quel disegno nacque la “Madonna del cavatore”. Alla Ditta Henraux chiedemmo il marmo statuario della Tacca Bianca e ci fu concesso gratis. Poi fu iniziato il lavoro, che venne fatto un po' alla volta, secondo gli impegni del Tommasi, che a quel tempo erano molti........ (omissis ).

Alla fine dell'estate la Madonna del Cavatore era terminata. Portai l'iscrizione che io avevo composto da qualche giorno e venne incisa sotto l'immagine. Il giorno seguente Leone venne alla Cappella e, insieme, ci recammo alla Polla per salire su quel trabiccolo ( la teleferica ) e, con quello, arrivare alla Tacca Bianca: sul piazzale della cava dovevamo scegliere il posto adatto per l'immagine.

Leone, che era tanto contento e parlava in continuazione, dopo qualche minuto dalla partenza rimase muto. Stavamo per arrivare in cima e “O Leone” dissi, “parlavi tanto alla partenza e poi ti sei ammutolito, perché?”

Rispose: “Guardavo questo pacchetto di sigarette e pensavo...se cascasse di sotto cosa succederebbe ?” Poi continuò: ”Veramente pensavo a Carolina ( la moglie ) e mi dicevo: se mi vedesse!”

Arrivammo dunque alla cava. Salutammo tutti i cavatori, ci offrirono un bicchiere di vino e poi insieme al capocava scegliemmo il posto dove mettere la Madonna. Furono prese le misure per l'altezza, lo scavo nella pietra della montagna, poi un allegro saluto a tutti i cavatori e giù per la via del ritorno, a piedi, non con la funicolare. A casa ci aspettava mamma Maria col solito buon minestrone. Leone tornò il giorno della Festa, 22 settembre 1946. Fu un giorno davvero indimenticabile: la processione, i canti, la messa solenne, la giornata passata alla Polla. Sono sicuro che chi partecipò a quella festa la porta scritta ancora nel cuore. La Corale della parrocchia, con tante voci bianche che la distinguevano, cantò la Messa a due voci con l'accompagnamento della banda, un accompagnamento che era stato armonizzato dai migliori musicisti di Azzano e dal Pievano.

Leone rimase entusiasta della messa ”..mai sentita una Messa così”, ed era proprio vero. Quando e dove era mai stata eseguita una Messa cantata all'aperto e con l'accompagnamento della Banda? Il momento più toccante, pieno di entusiasmo, fu alla sera quando l'immagine della Madonna fu posta sulla teleferica e, accompagnata dal Pievano Don Giovanni e dal Direttore della ditta Henraux, iniziò l'ascesa verso la Tacca Bianca. L'immagine si fermò qualche minuto in alto, poi fra i canti, le preghiere e le lacrime di quanti, ed erano davvero tanti, guardavano dal basso, riprese a salire in alto, fino qui a scomparire nel cielo.”

Il contesto storico-politico in cui nacque il culto della Madonna del Cavatore lo conosciamo attraverso le parole del maestro Mario Amati, tratte da “Gli Azzano d'Italia, terzo meeting, 1992”.

Nel 1946 i cavatori che salivano l'erta via del marmoreo Monte per raggiungere la cava erano oltre duecento. Spesso e volentieri si succedevano, dato anche il particolare momento storico, scioperi su scioperi e conflitti con la proprietà dell'Azienda, la Società Henraux di Querceta. Ebbene, guarda caso, fu proprio nel corso di uno di tali scioperi, che sembrava non avesse fine e nel contempo sembrava portare una certa qual divisione fra le stesse maestranze, nonché nella comunità paesana, che l'allora Pievano don Giovanni Dini, ebbe, diciamo, la lungimirante idea di portare lassù sulle cave, l'Immagine di Maria.

Si costituì naturalmente un apposito Comitato, i cui componenti erano in maggioranza gli stessi cavatori ( mi piace ricordare in modo particolare la figura di Giuseppe D'Angiolo ); si dette avvio ai preparativi e tornò pure la pace sulle cave.

Il comitato, del quale pure io facevo parte in qualità di Segretario, spinto dall'entusiasmo del caro Don Dini e dello stesso scultore aiutato da tutti quanti, uomini e donne senza distinzione di credo politico, si fece in quattro perché il tutto procedesse e riuscisse nel modo migliore. E il 22 settembre di quell'anno fu veramente il tripudio, la giornata trionfale per Maria.

Si partì presto, al mattino, da Azzano lungo la “via degli omini” con in mano il fagottino del pranzo perchè si doveva restare alla Polla l'intera giornata. Gli uomini, i cavatori, i giovani, facevano a gara per mettersi il trono sulle spalle. Furono fatte diverse soste lungo il percorso, durante le quali la Scuola di canto intonava l'inno accompagnata dal suono della locale Filarmonica.

V'era una grande marea di gente, giunta da ogni dove e i protagonisti erano loro - i forti, rudi e generosi cavatori - che avevano ornato il tragitto e tappezzato di striscioni inneggianti a Maria. La valle risuonava di suoni e di scoppi... ( omissis) mi sembra di vederlo, quel pezzo di marmo, sul quale Leone Tommasi aveva così bene scolpito la Madre Buona con in braccio il Bambinello Gesù e sotto le armi del cavatore: la fune, il martello, le subbie.

Eccola lì, Maria, sul carrello della funicolare che sta per partire, eccolo che parte, va lassù a raggiungere la cava della Tacca Bianca da dove proteggerà, come volle Don Dini, i suoi figli migliori.

Qui mi posero a custodia dei figli

più cari. Uomo che passi con i segni

sul volto della sofferenza e della

fatica, fermati un poco, affida il tuo

dolore al cuore della mamma buona.

 

Il Pievano Don Giovanni Dini volle questa Immagine per i suoi cavatori”

si legge infatti nella didascalia.

E' tutto uno screpitio di mine e di mortaretti, suona la Banda,..alto e solenne si eleva il canto, si canta l'Inno appositamente musicato dal compianto Padre Simone di Basati:

 

Salve, salve, pietosa Maria....

Tu ridona la pace ridente

All'Italia che in te si confida

Fa che sorga più bella e

splendente

Sulle spoglie dell'oste che fu.

 

E tutta quella marea di gente rimane lì estatica, incantata, quasi smarrita con il fazzoletto in mano e le lacrime agli occhi.

 

Il racconto del maestro Amati termina qui.

Il richiamo all'oste, al nemico, fa da contrappunto alla lapide di statuario che, in angulo evangeli, ricorda i sedici azzanesi caduti nella prima guerra mondiale: Capitano Gasperetti Adeodato, Sergente Maggiore Folini Angelo di Ferdinando, Sergente Maggiore Tarabella Antonio di Giosuè, soldato D'Angiolo Sigfrido, Folini Angelo di Ezzechia, Giannetti Cesare di Biagio, Giannetti Paradiso, Lariucci Natale, Mazzucchelli Benedetto di Pietro, Mazzucchelli Luigi, Mazzucchelli Michele, Mazzucchelli Santi di Pietro, Ricci Pietro, Tarabella Divino, Tarabella Leonildo, Tarabella Natale. La lapide dei caduti della seconda guerra mondiale, direttamente chiamata in causa da Padre Simone ( la collocazione della statua di Maria alla Tacca Bianca avviene ad un solo anno e mezzo di distanza dalla fine della seconda guerra mondiale ) è nella piazzetta di Cità.

Ma torniamo alla Madonna: salendo con la teleferica ( nella finzione di esserle a fianco ) che ne porta la statua alla Tacca Bianca, abbracciamo con lo sguardo il paesaggio che si disvela in tutta la costanza di elementi.

In alto le vette frastagliate, dove pochissimi anni prima la linea Gotica era stata appunto teatro della sanguinosa guerra civile, in basso il paese attorno al quale si estendono gli orti destinati alla coltivazione di frutta ed ortaggi, a seguire le selve di castagno, ed infine i pascoli e la Croce.

Superata la fascia degli orti e delle selve di proprietà privata, si aprono ampie zone di pertinenza dei villaggi, i compascua di tempi remoti destinati al pascolo delle greggi e all'esercizio degli usi comuni del legnatico, della caccia . Erano disciplinati da norme non scritte che garantivano un uso corretto della proprietà collettiva, regole e modalità del territorio da cui si svilupperanno gli usi civici le cui radici antichissime si devono anche all'influenza longobarda.

Gli Statuti raccolsero ed ordinarono le norme “ La proprietà comunitativa negli estimi analizzati non viene censita. Le aree comunitative, costituite prevalentemente da boschi e praterie, potevano essere sfruttate dall'intera collettività. La possibilità di portare a pascolare il bestiame nei prati e nei boschi della comunità e di raccogliere legname, garantivano alla popolazione un minimo grado di sussistenza” .

Scrive Denise Ulivieri in un saggio inserito in “ La Valle dei Marmi ” di Piero Pierotti del 1995.

Risulta pertanto dagli estimi che le aree già oggetto di uso civico erano ormai censite a nome di tutti gli originari del Comunello, dove i diritti dei partecipanti si configurano come “uti singuli”. Da qui la necessità del consenso unanime dei contitolari per le alienazioni dei beni.

Da qui il non essere i Comuni legittimati ad alienare i Beni Civici, perchè appartenenti alle popolazioni delle frazioni.

Anche le più impervie aree silvo-pastorali che non venivano censite a nome dei singoli utenti - perchè prive di un apprezzabile reddito agrario tassabile - appartenevano comunque al dominio “uti singuli” della Comunità che ne traeva ogni possibile utilità. Stupisce pertanto che nella sentenza del Giudice Pietro Catalani sugli Usi civici della montagna seravezzina del 5 febbraio 2014, si legga che i territori delle cave dell'Altissimo, oggetto di un annoso contenzioso, siano ritenuti non soggetti ad uso civico per la loro asperità.

Prima che l'attività estrattiva occupasse la maggior parte degli uomini di Azzano, era il bosco a garantire la sopravvivenza: carbone e legname assicuravano il soldo come si legge nei Commentarii del Santini: “ La Villa di Azzano si componeva dopo la metà del passato secolo ( 1700 ) di 75 famiglie e di 373 abitanti i quali, prima delle leggi di Leopoldo e prima della nuova apertura delle cave del Monte Altissimo traevano il soldo dei loro maggiori bisogni dal recare il carbone, o in ispalla, o con le loro mule a Pietrasanta e Serravezza e le legna nella seconda di queste terre.”

Nel bosco non erano soltanto attive le carbonaie ma vi funzionavano anche le fornaci. La natura carsica del territorio forniva le pietre calcaree adatte ad essere cotte, le selve la legna per alimentare il fuoco, i ruscelli l'acqua per spegnere la calce viva. Nell'alveo del serra, fra il Ponte di Rimone e la Carpiniccia, sepolti fra i rovi, occhieggiano i ruderi di una calchera, costruita anche questa, al pari delle altre, lontana dal paese per evidenti motivi di sicurezza.

Dalla relazione del perito Patrizio Botti, stesa il 20 novembre 1820 per la costruzione della strada del Borrini, documento conservato nell'Archivio Henraux di Querceta (collocazione XIII-33), si apprende che una fornace di calcina, destinata ad essere demolita in parte, si trovava nei pressi della Desiata, mentre quella chiamata “del Martini” era in zona Collacci. La fornace del Ponte di Rimone ha sostituito dunque, una volta aperta la strada, quella della Desiata. Sulla via alta che conduce all'Altissimo, in prossimità dell'alpeggio della Croce, troneggia una fornace di notevoli dimensioni. Riadattata negli anni Cinquanta a metato, fu elemento fondamentale della filiera della castagna che approdava poi ai mulini più in basso e poi nei cascioni e da lì nel paiolo o nei testi. Ed in tema di mulini vanno ricordati quello dei Babboni al Rio, alto sulle cascatelle che movimentavano la ruota e l'altro nel Serra, di Isidoro Giorgi, presso il pozzo conosciuto come “della Madonna”. Articolato in un complicato sistema di gore e corredato da una vasca per l'allevamento delle trote che il Giorgi, vero imprenditore, vendeva abbinate alla farina ai clienti. Il “Mulino” si mostra ancora, ammantato di edere e di scepaloni, ai frastornanti frequentatori estivi del sito, inconsapevoli per lo più dell' importante testimonianza di micro archeologia industriale che hanno davanti.

Il bosco è stato dunque indubitalmente la prima ricchezza per Azzano perchè la natura geologica del territorio presenta pendii rocciosi, rete idrografica superficiale, polle e sorgenti, numerose grotte e determina l'impossibilità di vaste aree coltivate. Tale restrizione naturale non potè essere superata neanche quando, a cavallo fra il XVIII e il XX secolo, la cerealicoltura conobbe la fase di maggior incremento. Frumento e grano vennero importati dalla pianura in modeste quantità; si supplì alla produzione diretta con panico e segale, più resistenti, ma soprattutto con la farina di castagne, dominante in tutte le tappe del nutrirsi quotidiano: manifregoli e tullore col latte a colazione, polenta e ciacci a mezzogiorno e cena, secchine e gragioletti negli intervalli. I ciacci, impilati fra foglie di castagno, venivano consumati a mezzogiorno al pascolo, nel bosco o in cava con formaggio o insaccati di maiale per companatico.

Il castagno aveva sostituito in tempi remoti, piantato consapevolmente per la molteplicità di usi, piante ad alto fusto quali faggi, querce e farnie. I terrazzamenti dimostrano che si trattava di colture pianificate.

Molte erano le varietà utilizzate: le biancole, che ben sopportavano il freddo, le fronzole, le rossole, le pistinesi, i marroni, le carpinesi e le politore, piante svettanti adatte per ricavare travi e travicelli. Le politore erano frutto di complicati innesti che le avevano rese dritte ma infruttifere. Piantate alla nascita di figli e figlie ne costituivano spesso parte del patrimonio e della dote.

I preziosi castagni erano protetti da specifiche e severe norme statutarie che vietavano di tagliarli, comprendendo nel divieto persino i rami verdi. Poteva però accadere che tale norma venisse revocata quando si presentava la necessità di ripulire le selve da quelle piante che, ormai secche ed improduttive, soffocavano la crescita delle nuove.

Vigeva la disposizione di cogliere castagne nei terreni altrui, mentre era lecito raccogliere quelle cadute nel proprio fondo da piante cresciute vicino al confine. Il pericolo più grave, per i giovani castagni messi a dimora dopo le complicate operazioni della semina e dell'innesto ( ci volevano dodici anni per raccogliere i primi frutti ), erano i morsi delle capre. I rapporti fra proprietari di boschi e caprai furono sempre animati.

La viticoltura era poco praticata, in genere si trattava di viti ai bordi dei campi o dei prati o consociate a gelsi, pioppi ed alberi da frutto. Per salvaguardare la qualità del prodotto gli statutari emanarono specifiche disposizioni allo scopo di rispettare i tempi della vendemmia che per la comunità della Cappella era fissata non prima del 15 di settembre. “ Ancora atteso e considerato che alcuna volta le vendemmie sono primaticcie rispetto ai temporali ed alcune volte tarde; e che non è regola in nel vendemmiare, però statuì et ordinò: che persona alcuna di detto Comune della Cappella non possa, né debbia vendemmiare senza espressa licenza delli Governatori di detto Comune (..)

La coltivazione della canapa, come quella di gelsi e degli orti, era praticata nei pressi dei centri abitati, in aree destinate esclusivamente a questa pianta tessile, di cui si conserva ancora memoria nei toponimi come Canipali. A volte intercalati da frutteti, più raramente da gelseti, gli orti fornivano lupini, rape, cavoli, fagioli, porri, zucche, agli, cipolle ed erano recintati da steccati e palancitre. La proprietà fondiaria era molto parcellizzata.

Si sopperiva all'esiguità dei fondi allivellando i terreni comunali in godimento perpetuo o a più generazioni, in linea maschile o femminile, dietro il modesto pagamento di un canone in denaro o in natura. Negli Statuti si fa riferimento anche a cessioni in affitto, rinnovate ogni anno nel corso di pubbliche aste. In tal modo si tentava di porre rimedio a due questioni: integrare la piccola proprietà contadina e garantire entrate alla Comunità, spesso indebitata col governo centrale. Anche i beni delle Parrocchie e degli Enti Ecclesiastici venivano assegnati a livello in cambio di una rendita che in genere era in prodotti agricoli, come attestano i terrilogi.

Non di rado gli abitanti della montagna possedevano appezzamenti in pianura dove si recavano in inverno per trovare occupazione come raccoglitori di olive. L'esodo degli anni cinquanta vedrà utilizzati questi terreni per edificare abitazioni, dando origine a fenomeni di zonizzazione di emigrati dal medesimo paese, come nel caso del Borgo dei Terrinchesi.

Fra le consuetudini più antiche, dovute alla necessità di far fronte a situazioni spesso al limite della sussistenza, rientrano gli usi civici del legnatico, macchiatico, ruspo, granellatura e del pascolo. Era questa un'attività diffusa che comprendeva pecore e bovini, quasi mai questi ultimi usati per l'aratura a causa dell'impervietà dei campi. Si praticava una transumanza locale, alla Croce , e talora vi giungevano greggi dalla pianura nel periodo estivo. La Bovalica testimonia di un allevamento con finalità alimentari per la produzione di latticini e carne, non escludendo - e ciò vale anche per le pecore - la produzione di concime. Tuttavia erano gli ovini a prevalere, sottoposti a norme che negli statuti distinguevano le pecore dalle capre.

Gli statuti regolavano aree, passi, periodi di bandita comunale per ogni sorta di bestiame durante la germinazione e la fruttificazione. L'allevamento dei suini avveniva appresso casa, in un porcile spesso collocato nell'orto; l'utilizzo era alimentare, in uno statuto della Cappella si prescrive “Del non mandar fuori i porci senza guardiano o come si dice a gagno” .

Lasciando le attività silvo-pastorali è del marmo che passiamo a trattare.

Di recente è riemersa la tesi che le cave dell'Altissimo e di Ceragiola siano state donate, con due distinti atti rogati dal notaio Antonio Cortile, il 18 maggio 1515, alla Signoria di Firenze. Gli atti non hanno nessun valore per il mancato reperimento dei contratti di donazione che si spiega con la reticenza della Segreteria della Repubblica di Firenze a rendere compiuto un atto che aveva sentore di sopruso: la cessione degli agri era stata imposta dalla Signoria e dalla Chiesa, del resto gli Operai di Santa Maria del Fiore avevano tanta urgenza di impossessarsi dell'oro bianco che occuparono gli agri senza attendere la stipula del contratto.

L'accesso al fondo da parte dell'opera e l'esercizio dell'escavazione costituivano una semplice situazione di fatto che non era neppure idonea all'usucapione. E comunque, a fugare ogni dubbio, resta l'evidenza di due rogiti che indicano come oggetto della donazione il diritto di cavar marmi dando per inteso che le popolazioni avrebbero continuato a godere delle utilità agrarie del fondo con le modalità consuete.

Non manca, nelle pieghe della precipitosa donazione, un evidente interesse personale da parte di uno “ ch'è capo de l'uomini di queste vile”, quell'Angelo del fu Benedetto di Giovanni Marchi di Azzano, nominato sindaco e procuratore per conto della comunità della Cappella per la donazione, il cui figlio Bastiano detto Angelotto ritroviamo poi ingaggiato dallo stesso Michelangelo nell'attività di estrazione.

Il 1515 cade a due soli anni di distanza dal Lodo con cui papa Leone X sancisce il possesso della Versilia da parte dello Stato di Firenze.

Due anni dopo Michelangelo Buonarroti riceve il 3 febbraio del 1517 dal Cardinale Giulio de' Medici una lettera dai toni duri e perentori che smentisce il parere negativo dato dall'artista in merito alla possibilità di cavare marmi dall' Altissimo. Il 3 novembre del 1516 Domenico Boninsegni, segretario personale del Cardinale, aveva già avvertito Michelangelo che sua Eminenza non riteneva possibile che Papa Leone X “ voglia attendere a chotesta favola di torre li marmi di costhà ( ossia da Carrara ) perchè lui ha affezione in queste chose di Pietrasanta”, intanto lo informava anche dei mille ducati stanziati a metà con il Papa, dall'Opera di Santa Maria del Fiore, responsabile della facciata di San Lorenzo, per fare la strada dei marmi.

Michelangelo, mentre si trovava a Carrara, aveva già ricevuto una serie di cortesi inviti a servirsi dei marmi versiliesi. Lo scultore Michele di Piero di Pippo, attivo a Pietrasanta, gli parlava della bellezza di quei marmi. Iacopo Salviati è stato sul luogo delle cave del Capitanato di Pietrasanta, con molti maestri “intelligenti”, e riferisce che ci sono marmi in quantità grandissima, bellissimi e comodi da trasportare.

Nasce il sospetto che Michelangelo voglia favorire Carrara, dove stava prendendo marmi per la sepoltura di Giulio II Della Rovere, commissionata dagli eredi che non condividevano con Papa Leone intenti e finalità politiche. Michelangelo deve cedere alla ragion di stato che esige si dia credito ai marmi di Pietrasanta. Il Cardinale lascia che sia Carrara a fornire i marmi per il sepolcro del defunto Papa Della Rovere, ma non transige sul resto. L'influenza del Salviati, che rappresentava l'anima imprenditoriale di casa Medici, determinò in Papa Leone X l'intenzione di quella politica di interesse per le attività estrattive, espressa anche per il ferro dell'Elba, che avrebbe avuto un notevolissimo impulso sotto Cosimo e Francesco I.

Lo sfruttamento delle valli del Serra e del Vezza ebbe così avvio. Michelangelo restò tre anni nel Capitanato di Pietrasanta, fino al 15 marzo 1520 quando con un “breve” Leone X rescisse bruscamente il contratto per la costruzione della facciata di San Lorenzo. Sul Monte Altissimo Michelangelo aveva fin dal 1518 svolto ricerche ed effettuato dei saggi individuando dei giacimenti che, secondo quanto riferito più tardi dallo scultore Vincenzo Danti per lettera a Francesco I, vennero contrassegnati con delle M incise sui massi.

La permanenza del Buonarroti sui monti di Seravezza è legata per tradizione alla realizzazione del portico che copriva il sagrato della Pieve di San Martino alla Cappella e del bellissimo rosone , noto come “Occhio di Michelangelo” . Il portico, distrutto in gran parte nel 1944 a causa di eventi bellici, faceva bella mostra di capitelli “a campanaccio”, che pare fossero un'invenzione del Buonarroti che avrebbe progettato l'intervento, gestito da Donato Benti.

Dopo la morte di Leone X, nel 1522, l'escavazione e la lavorazione del marmo proseguirono per uso privato finché con Cosimo I si registrerà una ripresa di interesse per la Versilia, volta prima alle miniere poi al marmo, alla bonifica del territorio di Pietrasanta ed alla sistemazione idraulica del Versilia, nonché alla costruzione del Palazzo Mediceo, ultimato nel 1565.

Cosimo realizzò anche l'ultimo tratto di strada fino ai piedi dell'Altissimo, nella parete di roccia che costeggia la strada; poco sopra il Ponte di Rimone, si legge l'epigrafe eponima “ + KOM AD in 1567” , “ Cosimus anno Dominice Incarnatione 1567”.

Successivamente saranno Francesco I e Maria Cristina ad interessarsi delle cave e più tardi nel 1821 il Borrini ed Henraux.

La strada, ancorché in regime misto di pubblico e privato, riveste un particolare interesse per Azzano perchè consente di raggiungerlo per via diretta da Seravezza, venendo a formare un anello con la carrozzabile del 1959.

Il Borrini, nato a Vicopisano nel 1787, discendente da una famiglia di Seravezza di origine ligure, laureatosi in legge a Pisa, aveva ricoperto in Seravezza ruoli politici in età napoleonica: era stato eletto per due anni segretario del maire, si era occupato in seguito della direzione delle Contribuzioni dirette, aveva ricoperto la carica di Gonfaloniere dal 1832 al 1837. Una decina di anni prima - informazione interessante per l'interesse rivolto poi al marmo - era stato fra i più attivi esecutori delle opere pubbliche ed aveva, nel 1825, collaborato alla realizzazione delle mappe catastali. Il 12 giugno del 1820 viene stipulato il contratto di vendita di un appezzamento che “acqua pende verso il fiume, e confina a Levante con la Costa dei Cani, Don Stefano Salini, e Strada a mezzogiorno col Fiume dell'Altissimo e Piscinacchio a Ponente col Bosco Comunale di Col di Monte e Borra della Greppia a tramontana con la sommità e crine del Monte, se ne fa ascendere la quantità a staja dugentosettantacinque e ottodecimi, ed essendo suolo affatto nudo e incapace d' alcun prodotto, eccetto qualche poco di fieno se ne fa scendere la stima a lire duecento settantacinque e soldi sedici e come in esso”

La trattativa aveva visto nel ruolo di intermediario Iacopo Tarabella di Riomagno, che aveva avanzato in un primo momento a suo nome la richiesta di acquisto.

L'attivazione delle cave sull'Altissimo dipendeva in primo luogo dalla possibilità di poter usufruire di una strada efficiente per i trasporti. La via aperta era in stato d'abbandono e non raggiungeva il monte. Il Borrini si rivolse per i lavori al perito Patrizio Botti che avrebbe avuto come valido supporto il vecchio tracciato della via Cosimina. Si trattava di risistemare l'esistente e di costruire ex novo fino alla Costa dei Cani.

Nel 1821 il Borrini decise di dare in accollo ad altri due imprenditori, Francesco di Pietro Guglielmi di Seravezza e Luigi del fu Lorenzo Mencaraglia di Riomagno, la costruzione di due sezioni della strada. Borrini potè contare anche sul sostegno del Granduca Ferdinando III che intervenne con una sovvenzione. Poco dopo questo successo, il 20 gennaio 1821 Borrini si legò in società con Giovanni Battista Alessandro Henraux, un ufficiale napoleonico francese che era giunto a Carrara con il compito di confiscare marmi a titolo di contribuzione di guerra. Caduto Napoleone, aveva proseguito l'attività di commerciante di marmi.

Terminata la strada, acquistati nuovi appezzamenti di terre anche grazie ad investimenti di capitali di terzi ( il marchese Cesare Grimaldi e l'Ospedale degli Innocenti di Firenze, fra gli altri ), venti anni dopo si poteva senza dubbio affermare che l'impresa era decollata e il territorio di Seravezza viveva una nuova realtà .

Alessandro Henraux , scrivendo a Leopoldo II, sintetizzò il successo raggiunto in tre punti: - prosperità economica goduta dalla popolazione; - arti e mestieri introdotti ed appresi da fanciulli che prima vagavano viziosamente; - formazione di un villaggio presso il Forte dei Marmi ove prima esisteva solo una capanna di paglia. Ranieri Barbacciani Fedeli nel suo “Saggio sulla Versilia antica e moderna “ del 1845 definiva l'impresa del Borrini come un episodio veramente singolare che aveva reso possibile il passaggio da un'economia marmifera ordinaria ad un'attività praticata col più alto profitto. Dello stesso avviso Emilio Simi che nel 1855 riportava a tabella le localizzazioni delle cave attive, dei loro proprietari, della quantità annua di marmo estratto.

La storia di Azzano non si esaurisce qui, Azzano è molto altro ancora, è volontariato ed associazionismo ( Pubblica Assistenza, Filarmonica, gruppo degli Alpini, teatro ), è accoglienza ( i bambini di Chernobyl e la scuola di scultura tedesca ), è identità fatta di tradizioni, memorie, gesti, fierezza.

Azzano è i mille volti e le mille storie quotidiane affondate nel baratro della memoria pubblica, vive in quella collettiva e personale.

Azzano è per me la carta geografiia con cui ho imparato a muovermi nel mondo partendo dalla casa di Castello, é l'alfabeto dell'affettività e delle relazioni.

Dice bene Pavese:

Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c'è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti”.

Azzano è, al pari di mille altri contesti, lavoro possibile ma anche e soprattuto agito; l'impresa non è soltanto di colui il cui nome passa alla storia, degli “illustri Campioni che in tal Arringo fanno messe di Palme e d' Allori” ma, continuando ad attingere a Manzoni, anche e soprattutto delle ”gente meccaniche , e di piccol affare” , del cuoco chiamato in causa da Bertold Brecht

Cesare sconfisse i galli. Non aveva con se nemmeno un cuoco? “ dell' “esercito di poveri acquartierato” di Luzi.

Alla poesia il compito di riportare l'attenzione ai sorpassati da narrazioni che prestano attenzione agli emergenti, per onorare i veri protagonisti di una storia che ha il marmo al centro e col marmo........

I CAVATORI di Lorenzo Tarabella

 

Rubini, nella notte gelida, le stelle.

Cielo spaziato.

Un senso: l'infinito.

Immobili le case. Sonno. Silenzio.

Scarpe chiodate martoriano la ghiaia

nelle sudice strade del paese.

E' l'ora. Una voce, dei lumi alle finestre.

Il calvario incomincia: partono i cavatori.

Un ponte, il primo altare,

di fili e pioli

gettato sopra un fiume fra le rocce;

e l'affanno nell'ascesa è la preghiera.

E vanno le ombre per l'impervio monte

stagliate contro il vuoto dell'abisso

sino a toccar le stelle.

Un vecchio, avanti, da secoli le guida premuroso col bastone.

E silenziose vanno le ombre stanche dal sonno

prive di sogni, di gioie.

Giù, ancora giù, più giù,

dai tristi casolari affumicati

all'unisono batte la domanda:

Torneranno?

Il vento fischia alto nella tecchia,

combatte fra i castagni nelle forre

gelido il suo passaggio nella cava,

fra immoti blocchi.

Martelli e spari! La montagna vive!

Martelli e spari: la montagna

e l'uomo.

Si spezzano le mani ai cavatori,

il sangue sprizza vivo

tinge le scaglie bianche,

pungenti spilli, il freddo

trafigge i pori.

Martelli e spari: i cavi sono tesi,

vibrano come corde di violino.

Uno schianto: e la morte.

Pende dall'alto minaccioso sopra le teste

un fragore: e la morte.

Si spezzano le mani ai cavatori,

il sangue sprizza vivo;

la tosse è secca nella gola stanca,

il salario più magro,

e, in agguato, la morte;

ma una disperata volontà forgiata di miseria,

sorregge gli uomini.

Tornano.

E' presto. Troppo presto.

E le donne lo sanno.

Il sole ancora pallido carezza lo squallore delle case

E' troppo presto.

Lo sanno, le donne.

 

Seravezza, 4 novembre 2017
Anna Guidi

Commenti

07-11-2017 - 07:11:33
GIULIO D' ANGIOLO

Brava, interessante e approfondita come sempre ricca di particolari anche inediti. Grazie

07-11-2017 - 07:11:50
Caterina Giannotti

Apprezzo l’influenza longobarda. Combattere in difesa dei propri diritti è cosa giusta e buona.

07-11-2017 - 12:11:30
Mariano Bertoli

LIguri/Apuani, Romani, Longobardi, I Comunelli, I Medici, Michelangelo, Carbonai, Fornaciai, Cavatori, Le Imprese del Marmo, Il culto di S. Michele, quello mariano.... la nostra storia. Ogniuno di noi porta con se un seme, un gene, un'impronta che ci collega in modo diretto ai nostri antenati ed alle vicende del tempo. Mantenere viva e tramandare la memoria storica ci identifica ci distingue e ci nobilita. Conferenze come questa dal taglio volutamente divulgativo e non riservate esclusivamente agli addetti ai lavori non fanno che accrescere ed arricchire una società. Recuperare manufatti fatiscenti e ravvivando antiche tradizioni vuol dire mantenere in vita il contesto storico del tempo, perpetuare la memoria ed il rispetto di coloro che con sacrifici immani li realizzarono. MI riferisco al testimone raccolto dal Comitato che si è recentemente costituito ad Azzano con lo scopo di ristrutturare la chiesa dedicata a S.Michele. Un'impresa difficile considerando la penuria di risorse disponibili ma tutti noi determinati al raggiungimento dell'obiettivo proprio per questi motivi che vanno oltre al recupero dell'edificio.

07-11-2017 - 19:11:14
Tarabella Monica

Anna, un piacere partecipare alle tue conferenze. Bravisssssssima

07-11-2017 - 19:11:22
D ‘ Angiolo Letizia

Complimenti, interessanti anche gli approfondimenti.......

09-11-2017 - 10:11:07
Diletta Sacchelli

Anna, rendi Azzano ancora piu' apprezzabile. Quanto alla via micaelica, una bellissima occasione per viaggiare in modo colto, nel segno dell' arte e della storia.

11-11-2017 - 19:11:59
Andrea sigali

Come al solito anna guidi ci offre uno scorcio della sua pregevole cultura in materia. Mi è piaciuto soprattutto il collegamento con il culto mitraico, a riprova di un legame stretto tra cristianesimo delle origini e mitraismo. Per quanto riguarda il riferimento alla gallina coi dodici pulcini d oro, si tratta di una leggenda frequente sia in toscana che in lunigiana. Un opera di oreficeria del vi o vii secolo con una gallina con dodici pulcini si trova custodita in un museo a monza

19-11-2017 - 16:11:12
Olga Tartarelli

La ricerca storica di un microcosmo che tale non è perchè si allunga attraverso l'Europa fino all'Oriente. La ricerca etimologica è più intrigante di un giallo.

07-12-2017 - 12:12:03
Simonetta Moriconi

Grazie Anna per il tuo articolo, mi ha permesso di conoscere aspetti del territorio e tradizioni davvero interessanti. Complimenti

08-12-2017 - 13:12:02
Giovanni Borghini

Il potenziamento sociale ed economico di Azzano e dintorni non prescinde dall'azione encomiabile di tutti quelli che hanno favorito il passaggio da un'economia rurale ad una industriale: azione che merita imperituro onore anziché essere intorbidita da interpretazioni distorte o da reazioni improvvisate ed istintive ovvero dettate da opportunismo.

08-01-2018 - 17:01:55
Stefania Rivano

La collega Anna Guidi, proponendomi l' acquisto di un biglietto della lotteria per il restauro del tetto della Chiesa, me ne ha fatto conoscere la vicenda. Vincitrice del premio, ripasso nei dettagli la storia di un paese depositario di storia e di storie, amato dai suoi abitanti che si impegnano a conservare e restaurare memorie e manufatti.

01-12-2018 - 14:12:09
Valenrina Sorice

Sono davvero entusiasta di essere venuta a conoscenza di questo portale stupendo!!!
Un Grazie alla Dottoressa Guidi e a tutta le Persone che contribuiscono a farci conoscere la storia della nostra meravigliosa terra!!!

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