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All'ombra dei cipressi di Basati

Basati: una scia di case e di vie, in mezzo la chiesa, poco distante il cimitero, privilegio che lo distingue dagli altri paesi della montagna seravezzina: Azzano, Fabbiano, Giustagnana e Minazzana seppelliscono infatti i loro morti a La Cappella, presso la pieve di San Martino.

Anche se il Santo Protettore  Ansano vanta nobili origini romane, con questi  villaggi Basati non condivide nemmeno l'etimologia latina. 

Basati sta per “abbassati”, discesi cioè  dall'abitato posto “ a basso del monte  in una vallicella quasi da basso alle capanne”, come riferisce Vincenzo Santini, lo storico della Versilia Medicea che tramanda, pur dando risalto alla tradizione che vuole i basatini carbonai, la teoria  di antenati bresciani o tirolesi scesi per cavare argento nelle miniere di Gallena. 

La tradizione orale supporta l’etimologia con la leggenda che l’abbassamento sarebbe imputabile ad un grosso lumacone, limacone in dialetto, che una notte di luna fece franare il paese, disastro riassunto nel proverbio “Per un limaché, si mosse tutto Basaté”.

A Basati soffia anche il vento è speciale. Nelle sere di ventibuia o nelle gelide giornate di inverno,  il vento cercine turbina giù dalle montagne si infila nei vicoli e ammassa alle porte cumuli  di foglie secche. E’ un elemento tanto  importante per la carta di identità del paese che la rivista locale, stampata e diffusa con fortuna per alcuni anni,  fu battezzata con il suo nome. E in tema di nomi, i cognomi più ricorrenti: Leonardi, Salvatori, Giannarelli, Marrai, Giannaccini, non si riscontrano come originari  nelle carte di archivio in nessuno dei paesi fratelli della montagna seravezzina.

Ne' i distinguo si fermano qui: perché Basati è l’unico ad essere rivolto e a guardare  allo stazzemese. Bene in vista  la canonica e il campanile di Santa Maria Assunta, avamposto di Stazzema; nitidi, ancorché separati dalla gola del Giardino, gli abitati di Levigliani  e Terrinca  al punto che se ne possono agevolmente enumerare le case;  Pania e Corchia in posizione dominante, a far concorrenza alle Cervaiole e al Cavallo; più a occidente la vista delle colline che, partendo dalla valle del Vezza, gradualmente si fanno dorsali e cime.

Basati conta oggi centocinquanta abitanti. In molti al mattino scendono a valle  per il lavoro e restano  fino  a sera, su si fermano gli anziani: il silenzio è la  dimensione prevalente  e più avvertita, specie da quando la scuola d'infanzia è stata momentaneamente dislocata altrove.

A Basati  tutti si conoscono: stupisce ogni elemento che deroghi dal quotidiano  e dalla tradizione. E' così che chi frequenta il cimitero, in molti più del solito nell'approssimarsi della ricorrenza dei morti, si interroga su due lapidi; più ornata una, dove accanto alla foto in divisa si legge “Gen. Schmiedt prof. Giulio, medaglia d'oro al valor militare”, nuda l'altra che reca un nome e due date: Manlio Cancogni, 6 -7-1916/ 1-9-2015. Fra i due defunti un rapporto di parentela: cognati. Il generale è morto  ventiquattro anni prima del giornalista scrittore e scegliendo quella collocazione gli ha forse suggerito di fare altrettanto al momento opportuno, altrettanto e forse è stato proprio Cancogni   a suggerire il luogo. Con Basati non sussistono, per nessuno dei due, legami di genealogie familiari, né di frequentazione continuativa. Quanto  a Cancogni sappiamo che quando era in Versilia abitava sul lungomare a Marina di Pietrasanta e per alcune estati,  a fine anni Novanta, dopo aver scritto “Caro Tonino, un anno dal diluvio”, affittò una casa a Pruno, tornando nei luoghi  delle sue vacanze infantili. Basati è dunque una libera scelta di amore, di cui la montagna è motore e fulcro, perché da qui se ne ammira una bella porzione, e di tutto rispetto. 

In linea con questa sviscerata passione, poco prima di morire Cancogni disse al nipote, avvocato Jacopo Cappuccio, di essere  disposto ad offrire  tutti i  suoi quadri in cambio di un'anta che mostrasse in rilievo l'intera corona delle Apuane. Stanti tali premesse non stupisce pertanto che abbia scelto per il definitivo riposo una terra “pia” che, pur non avendolo accolto“infante” né avendolo  nutrito,  “nel suo materno ultimo asilo porgendo grembo” ha  reso sacre le sue reliquie. 

E la sacralità del Foscolo, che si disegna in un orizzonte di grande spessore civico, è superata e completata nella sacralità della fede cristiana. Attivo antifascista a Firenze, a Pietrasanta ( dove fondò un CNL locale), a Roma, ed eletto più tardi nel consiglio comunale di Seravezza come esponente dell'”Unione Versiliese”, all'impegno civico  Cancogni ha dedicato tempo  e risorse, sia in termini di istruzione e formazione come docente in Italia e negli Stati Uniti, sia attraverso la scrittura: giornalista per una vita  presso Il Corriere della Sera, La Stampa, il Popolo, l’Europeo, L’Espresso, autore di una cinquantina di libri, fra romanzi e racconti e vincitore di importanti premi quali Bagutta, Strega, Viareggio, Grinzane Cavour.  La dimensione della fede, in cui era cresciuto nell’infanzia, non la ritrova  prestissimo. “Sono stato ateo, libero pensatore dai 18 ai 20 anni- disse nel marzo del 2011, al giornalista del Tirreno che lo intervistava nella casa di Marina - poi ho deciso di abolire il problema. Sui cinquanta anni è ricominciato il pensiero tormentoso, ma sempre lontano dal culto. Nel '93 ho cominciato a sentire la mia appartenenza alla chiesa cattolica, ad andare a messa,  e sono contento di essere cattolico”. Il '93 è l'anno del grande dolore per la morte della figlia Annapaola, primogenita dello scrittore che dalla moglie Rori, la fiorentina Maria Vittoria Vittori, ha avuto anche un’altra figlia, Alessandra, la madre dell’avvocato Cappuccio. Un matrimonio, quello di Manlio e di Rori, lungo settanta anni,  un legame di “scandalosa fedeltà”come Cancogni  stesso dichiarava. Quanto alla morte, nella stessa intervista confessava: “ Da ragazzo il pensiero era ossessivo, aspiravo al traguardo dei 27, poi superata la guerra quel pensiero mi è passato, o meglio, ci penso e non mi sgomenta più, grazie anche al dono della fede”. E, in coerenza con il suo amore per la montagna e con la fede, è in un camposanto cristiano, fra le cime più belle delle Apuane, e riposa in pace in attesa della resurrezione.

Anna Guidi

 


 

CARO TONINO, un anno dal diluvio

Il 19 , fra mezzogiorno e il tocco, c’è stato il collasso. La colonna pregna di vapore, raggiunte le regioni fredde dell’atmosfera s’è sfasciata , è venuta giù una gran massa d’acqua, migliaia di tonnellate, che ha investito le cime, (Pania, Forato, Croce, Nona, Procinto, Matanna) e le pendici , ha gonfiato a dismisura i rivi, i torrentelli, i canali, e confluendo tumultuosamente nel canale del Cardoso, nel Vezza e poi nel Versilia, ha travolto tutto, dal Ponte Stazzemese a Corvaia, dove il fiume esce dalla stretta dei monti, dilagando nella pianura, oltre la ferrovia Pisa-Genova, oltre l’Aurelia, oltre l’Autostrada, fin quasi al mare.”

Il 19 è mercoledì 19 giugno 1996, il giorno dell’alluvione. Quattordici i morti, ingenti i danni (quantificati in duecento miliardi di lire), il doloroso e duro bilancio di un diluvio che sconvolse la Versilia e, con Fornovolasco, un lembo di Garfagnana. Manlio Cancogni, ad un anno di distanza, scrisse “Caro Tonino”, una lunga lettera- racconto indirizzata all’amico Antonio Cederna che, dalla Valtellina, gli aveva rivolto in diretta pressanti richieste di informazione sul disastro. Cederna morì il 27 agosto di quel medesimo anno, e Cancogni mise in forma scritta quello che non aveva potuto dire a voce. Nacque così il libro, quasi un tascabile dalla poco appariscente copertina grigia, una miniera di informazioni che andavano ben oltre la cronaca dell’alluvione, una messe di ricordi delle vacanze trascorse da bambino a Pruno, un inno luminoso alla bellezza delle valli Apuane ora sommerse di acqua e fango.

Antonio e il lettore sono condotti di paese in paese: Ponte, Le Molina, Stazzema, Pomezzana, Farnocchia, Cardoso, Volegno, Pruno, di sentiero in foce, di alpeggio in vetta, di rupe in prato fino alla fonte di Mosceta : “che acqua Tonino! Che freschezza e che leggerezza. Si capiva che fosse così famosa. Si sedeva sullo scalino, in modo da avere la fonte in mezzo. Mio padre estraeva dal sacco la colazione: le uva sode, il cartoccino col sale, il prosciutto nella carta oleata; le fette di pane con la marmellata di melone, una specialità della mamma.. Si mangiava e ogni tanto si beveva di quell’acqua. La sete ce l’eravamo levata, e tuttavia si continuava a berne. L’acqua ci lavava il cuore; ne avevamo uno nuovo.” 

Quel cuore che riposa adesso fra le sue montagne.

Anna Guidi

Commenti

31-10-2019 - 22:10:29
Giulio Salvatori

Inizio con Brava Anna Guidi. Anche se non condivido la leggenda del "lumacone o limacone..." fa sempre piacere leggere cose interessanti del mio paese. La citazione de "Il vento cèrcine" , mi ha riportato indietro di qualche anno insieme all'Amico Leonardi Emilio. Nel libro di un anonimo religioso del 1300, -Fatti e personaggi della Versiglia-si leggono notizie diverse sulla provenienza di questi basatini. La parola agli storici. Grazie ancora Anna. .

01-11-2019 - 18:11:13
Giulio Salvatori

Chiedo scusa, In riferimento al libro -Fatti e personaggi della Versiglia- di un relisioso anonimo...la data non è 1.300. ma 1730 .

10-11-2019 - 19:11:25
Emilio Leonardi

Grazie Anna di aver prestato attenzione al mio paese. Quanto all'origine le teorie non mancano: provenienza tirolese, confermata dagli occhi azzurri e dai capelli biondi o, ed io condivido questa, dalla Provenza, precisamente da Basaz. Per inciso, a Basati i letti erano tradizionalmente di una piazza e mezzo, secondo l'usanza francese, senza dover chiamare in causa Napoleone perché risalenti ad epoche precedenti.

10-11-2019 - 19:11:42
Lucia Davini

In che periodo nasce come paese Basati?

11-11-2019 - 11:11:07
Anna Guidi

Lucia Davini, relativamente alla nascita del paese : Vincenzo santini nei Commentarii riferisce che Basati "esisteva nel 1333 e faceva parte del Comune della Cappella né aveva allora distinta parrocchia.........però nell'estimo del 1320 ( A Rosso 3 ) è ricordato come attinente al Comune di Pietrasanta , come lo era Cerreto, ed al rimase unito fino alla legge Leopoldina che lo agglomerò a quello di Serravezza...." Interessante quanto riferisce il Barbacciani-Fedeli: sotto il paese di Basati in prossimità di un fiume nel sito detto il Crocicchio vi era una cava di lapislazzuli, oggi perduta che darebbe indizio di vena di rame. Il Targioni riferisce della presenza di indizi di malachite di colore verde molto vivo, per cui si può ipotizzare che il Barbacciani abbia confuso i lapislazzuli con la malachite.

11-11-2019 - 15:11:11
Lucia Davini

Grazie Anna sempre precise le tue risposte interessante sapere che potevamo trovare dei lapislazzuli

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