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Concerto per Ranocchiaia e dintorni

...e involve tutte cose l'obblio nella sua notte; e una forza operosa le affatica.

Il buio dell'oblio non è ancora sceso sull'alpe; l'impegno e la speranza vanno nella direzione opposta alla foscoliana certezza. Vero è però che perduta è la memoria della vita di un tempo all'Alpe, vero che per chi ama i luoghi e la storia è un dovere recuperarla, trattenerla e condividerla.  

Dal 1981 ho casa a Ranocchiaia, Alpe di Pruno, e quando dico casa dico il luogo in cui mi riconosco e sono. Una casa-rifugio, spazio alternativo ai ritmi e ai modi del vivere in pianura, un luogo del cuore, della fatica operosa, della genealogia familiare, dei ricordi.

Acquistata dallo zio Palmiro, per seicentomila lire ( era diroccata e invasa dall’edera), fu risistemata  da maestranze locali (Sandro Pippanera e Lino Silicani, detto Capatasse) con l’ausilio dello zio Erasmo, di mio fratello, mio e d Gian Luca Giannotti che ne è con me, per comunione dei beni, tuttora comproprietario. Il 15 agosto del 1981, Santa Maria, la casa era pronta. L’elicottero aveva fatto molti viaggi per portare sabbia e cemento, anche la teleferica, che scaricava alla Rocchetta nella piazza del Migliorini, e i muli, avevano contribuito.
Fonti e testimonianze del viaggio nei “tempi” di Ranocchiaia: le   pagine scritte dallo zio Cele', Celestino Silicani, nato a Pruno il 1 ottobre 1900, dal maestro Pasquale Ancillotti, che venne alla luce sulla piastra del focolare in una casa a Cardoso nel 1905 e da Manlio Cancogni, scrittore, classe 1916, che a Pruno trascorreva le vacanze estive nella casa dei miei antenati. Altre memorie, quelle raccolte oralmente da Enrico Vangelisti, detto il Padreterno, figura di riferimento per Ranocchiaia che cura nel concreto le necessità collettive. Perché all'alpe la dimensione comunitaria, in assonanza con gli usi civici dei demani antichi, è spontanea: la raccolta dell'acqua, la viabilità, il trasporto delle merci (in elicottero le più ingombranti) vanno gestite assieme per raggiungere gli obiettivi. Ne consegue una solidarietà altrettanto spontanea, un esserci nel momento del bisogno che convive con altri momenti di pura convivialità e di viva amicizia, senza escludere la ricerca di silenzio e di raccoglimento. A Ranocchiaia si vive come in una famiglia allargata: la Giannina ed Elfio furono nonni per le bambine,   Tullio si trasferì dalla casa del Petòla alla casa in cima alla schiera, quella in cui una grande pietra di riporto ricorda che Tommaso da Volegno fu lì il 10 giugno 1547; i Vincenti rappresentarono, finché visse Flavio, la dimensione patriarcale, gli Eschini di Massa testimoniarono, benché distribuiti in varie dimore, una forte fratellanza e introdussero noi versiliesi in usanze nuove: la più gustosa, la focaccia riempita di fichi. I Palamidessi, subentrati nella casa di Pierpaolo e Teresa, altrettanto disponibili ed ospitali. I Leonetti: una presenza storica che in Guido vede un abile artigiano e un testimone del passato di tenace limpida memoria. Quanto a me, sono, con Enrico il Padreterno, nella scia della discendenza Silicani. Lo zio Palmiro mi vendette la sua parte di eredità. Una famiglia allargata, quella di Ranocchiaia, che si allunga fino alla Rocchetta e che ricorda, con Giannina, Elfio, Elda, Evelina, Pierpaolo, Massimo, Flavio, anche il Lino, Dino e Giorgio, l'ultimo che non salirà più all'Alpe se non nel cuore di chi lo porta.

Ranocchiaia, adesso questa, fu altro.

Al pari di altri alpeggi, oggi luogo di soggiorno nel tempo libero in tutto il corso dell'anno, un tempo assolveva ben altra funzione e viveva pienamente soltanto in estate, sprofondando in autunno in un letargo che si protraeva fino alla tarda primavera.

Scrive il Celè nel paragrafo   del “Brogliaccio” dedicato all'economia ”Su in alto , verso Mosceta, si coltivavano il segale, il farro, l'orzo...il farro serviva per il minestrone al posto del riso, mentre l'orzo, tostato, sostituiva il caffè. Inoltre con la farina di segale venivano spianati i tagliarini e le fogaccette. Nei mesi di luglio e agosto che la gente trascorreva lassù sull'Alpe abbarbicata alle rocce, quando le piogge estive erano un pochino benefiche, si potevano ottenere anche fagioli, piselli, zucchini, e altra comune verdura per uso simultaneo. Certo, quando la stagione era avversa, diventava un problema anche l'erba per le bestie. Ecco perché la raccolta del fieno era molto importante specie per la stagione invernale. Ma anche il fieno era a caro prezzo a motivo dei trasporti, non solo negli “streti”montani ma soprattutto in quelli paesani più a valle per quel dover portare tutto in collo.”

Era dunque Ranocchiaia luogo di transumanza; nella bella stagione si trasferivano in alto i bovini spingendoli su per i sentieri fiancheggiati di bosso allo scopo di ridurre le conseguenze di un'eventuale caduta. Mio fratello Gabriele mi insegna che con i rami tenacissimi del bosso, o bussilo che dir si voglia, si preparava il brigliolo, strumento utile per legare la bestia al collo o per bloccare e stringere la fune che lega le fascine. Il Padreterno invece, classe 1958, che ha trascorso a Ranocchiaia i mesi estivi fino all'adolescenza, racconta che a Peréta i pastori dell'Orzale portavano pecore e maiali. Ricordo bene che, anche più tardi, negli anni Ottanta, Anna, la moglie di Piero Iacomini, detto Pieralla, conduceva il gregge a brucare le erbe rigogliose nei prati dell'Alpe e altrettanto bene rammento che a metà di quegli anni e fino al 2006 da Montramito il pastore Andrea Cheli si trasferiva in estate con tutta la famiglia (Lilia Neri, la moglie, Alessio e Annarosa, i figli) a Poggiogo nella casa di Piero Guidi. Con Anna Ricci, sposa del Padreterno, di mattina salivamo (Poggiogo è più in alto di Ranocchiaia) a comperare la ricotta fresca e bevevamo il siero, chiedendo anche di lasciarci da parte qualche forma. L'avremmo poi cosparsa di cenere e posta a stagionare sulla tavoletta ciondolante dal trave. Quando in inverno, palpandola, la giudicavamo pronta al consumo, tirata giù, aperta ed affettata, la cucina si riempiva dello smalto azzurro del cielo; l'asciutta compattezza dei cespugli pizzicava il palmo della mano, il suono rauco dei campanacci si insinuava nel monotono gorgoglio del torrente e la bocca si riempiva del profumo dell'origano e della canugero. Un rito sacro, una religione. Come religione era stato lo scolpire nella soglia della stalla una croce per proteggere le bestie e lasciare che la stanza più grande fosse loro riservata. Sempre il Padreterno narra che i nonni, Pietro Baldi, detto Petola o Piè il Merlo, ed Esterina, sorella del Celè, portavano la manzetta a Ranocchiaia a fine aprile e vi restavano e lui con loro finché la frequenza delle elementari non lo costrinse a ridurre il periodo di vacanza fino alla Madonna degli Otto (8 settembre) o del Rosario (6 ottobre). La manzetta era stata fornita dal macellaio del Pontestazzemese che soleva, allo scopo di avere carne ottima, affidare vitelle a varie famiglie che le allevavano nella natura. Le manzette che il Petola prendeva di anno in anno erano collocate prima nel podere del Grugnolo, poco sotto Pruno, poi a Ranocchiaia. Macellate, fornivano alla famiglia una risorsa in denaro e una piccola quantità di carne fresca. A Pereta la pastora Anna accudiva anche i maiali. Per convincerli a seguirla dall'Orzale fino a lassù, via Colle a Iapoli, li precedeva prendendoli per la gola, con la trogola piena di sbroscia. Triste sorte, invece, quella del toro del Vittorione. Misantropo originalissimo, figlio del Felicione e con un fratello che stava alla Tomba, il Vittorione aveva dimorato a Ranocchiaia con la famiglia; i figli Aladino e Piè erano nati lì. Tornò a soggiornarvi stabilmente anche dopo la morte della moglie. Amava teneramente sua madre: ne è prova una pietra in cui è inciso il nome Maria dove un cuore sostituisce il puntino della i.   Grande affetto provava anche per la principessa Mafalda che, creduta a bordo degli aerei che volavano sopra Ranocchiaia, salutava da cima il prato sventolando un fazzoletto rosso a fiorellini bianchi. Del Vittorione si racconta che, intenzionato a costruirsi un forno per evitare di scendere a Valdicastello a comperare il pane, avesse usato il legno per farne il piano di cottura. Il pane, che costituiva col formaggio e le patate il cibo da lui consumato usualmente, non lo acquistava ne’ a Pruno ne' a Cardoso perché temeva vi mettessero la “polverella”. Per motivi non accertati rifiutava la benedizione della casa da parte del prete (sia don Leonello Verona che don Nino Guidi salivano ogni anno all'Alpe a benedire) e si difendeva energicamente, impugnando roncola e pennato, dal ricevere visita alcuna. Tornando al toro, che doveva essere portato a valle, accadde che pricolò alla prima curva sotto casa troncandosi le zampe anteriori. Roberto, il macellaio, salì a Ranocchiaia fornito di attrezzi, lo uccise e lo squartò dopo averlo sospeso ad una fania che adesso non c'è più. Il Pellè, Pellegrino Bertellotti, originario di Palagnana ma prunese di adozione, portò via a dorso di mulo carcassa e carne. Ùn' altra fonte, ma tornerò ad attingere dal Padreterno, è lo scrittore Manlio Cancogni che, nell'estate del 1998, tornato in vacanza a Pruno, salì un giorno a Ranocchiaia con me, con lo zio Palmiro e con Sirio Guidi, fratello di don Nino. Mentre rigovernavo dopo un lauto pranzo, dalla finestra osservavo Manlio e Palmiro seduti sul prato a chiacchierare: “due calvizie a confronto, due potestà, due esperienze consumate”; il richiamo ai Promessi Sposi, ne avevo parlato a lungo con Cancogni, trovava assonanza con il colore dei capelli e con le esperienze, non con altro. Di certo non ero ad assistere ad una sfida di potere e i due non avevano niente da spartire con il conte Zio e il Padre Provinciale. Due mesi dopo ricevetti, niente meno, una cartolina di Cancogni da New York; il postino l'aveva lasciata a Pruno dallo zio Erasmo. Quanto all'esperienza di Cancogni all'Alpe, bisogna sapere che la famiglia di Giuseppe Cancogni, padre di Manlio, abitava a Roma ma d'estate tornava in Versilia, a Fiumetto. Nel mese di agosto del '22, per interrompere la vacanza marina con un po' di montagna, i Cancogni affittarono una casa a Cardoso, nelle estati fra il '25 e il '29 soggiornarono a Pruno, alla Fontana, nella dimora dei miei antenati. Scrive Cancogni in “Caro Tonino”: “A Pruno ho passato quattro mesi d'agosto, nelle estati fra il '25 e il '29. Ci sono ancora le due case, fuori del paese, sulla mulattiera per Mosceta, una di qua, una di là, dove ho abitato. I Mazzucchi (lo Stè e la Palmira) non avevano figli ed erano fra i ricchi del paese; vale a dire che oltre alla casa possedevano qualche piana e un po' di selve. I Silicani erano tanti, grandi e piccini. C'erano un Celeste e una Marietta; una Brigida e un Settimo. Settimo faceva il postino; Celeste un po' di tutto; pitturava anche le pareti delle stanze a chi glielo chiedeva.”   E più avanti, a proposito della Pania: “Le siamo proprio davanti, ora: diciamo meglio, le siamo ai piedi. Niente si frappone fra lei e noi, solo l'aria, poco più di mille metri. La vediamo per la prima volta intera, dalla base alla cima, fra la Foce di Valli e la foce di Mosceta dove siamo diretti e dove termina il nostro viaggio.” Il “noi” si spiega col fatto che in “Caro Tonino, un anno dal diluvio”, Cancogni intesse un colloquio ideale con Antonio Cederna, Tonino appunto, scomparso il 27 agosto del 1996. Il diluvio è l'alluvione che il 19 giugno del 1996 devastò la Versilia Storica, portando morte e rovina. Proseguiamo nella lettura “Da questa parte, lei ci nasconde il fianco meridionale e comincia a  scoprirci quello settentrionale. Per ora solo di scorcio, con la sottile cresta che unisce la cima principale al Pizzo delle Saette; così si chiama l'aguzza punta rocciosa e bianca a sinistra; quella. Unica, vero? Dimmi in tutta onestà se hai mai visto un'altra dama che le stia alla pari. Dì su: non è una vera opera d'arte? Questa poi, col sole calante che allunga le ombre sull'erba, è l'ora più bella. Qui dove siamo, dove finisce il castagneto, si chiama Tiglieta. Comincia l'Alpe di Pruno. Senti che aria fina e che buon odore d'erba. L'alpe di Pruno è dove in estate la gente di Pruno e di Volegno portava le bestie. La pendice, tutta di prati, rotta da vallette, pieghe, valloncelli, con rari ciuffi di alberi e di arbusti, sale fino alla cresta che s'affaccia sul versante di là, il versante del Giardino, percorso dalle curve della strada d'Arni. Ci sono casolari sparsi, pochi, e qualche gruppo di casucce poco più che capanne, ora completamente abbandonate. Dopo Tiglieta vengono le Caselle. Più a destra, nascoste da quel costolone ci sono le Rave, poco sopra, dentro una piega, folta di giovani ontani, e di cespugli, Ranocchiaia. Alle Caselle c'era una casa che faceva da rifugio. La chiave l'aveva un maestro di Pietrasanta, un certo Folini, amante della montagna. Ci passava l'estate con la famiglia tenendo a pensione qualche ragazzo. Ogni giorno lui e i suoi pupilli erano in gita sulle cime. Sarei stato felice di stare con loro, invece che in casa con babbo e mamma e le sorelline. Si, perché l'Alpe di Pruno, questi alti pascoli di un bel verde opaco che a fine agosto già comincia ad imbrunire, erano, caro Tonino, il mio Eden. Si apriva a Tiglieta a alle Rave; si animava a Ranocchiaia e alle Caselle; si glorificava a Peretola. Veramente sulla carta è scritto Pereta. Tutti a Pruno dicevano Peretola. Quattro case, murate a secco, senz'acqua, senza luce, bestie e cristiani insieme nell'odore d'erba e di letame. Che consolazione attendervi la sera, quietamente seduto in “verde zolla”, gli occhi alla valle, sentendo sopra la testa lo sguardo protettore della nostra Regina, d'un bianco appena rosato, così bella e inaccessibile, attendervi il buio punteggiato dai lumini dei paesi: ai nostri piedi Pruno e il Cardoso, laggiù Farnocchia, e addormentarsi.... Questa casa isolata, poco più sopra, col tetto di lavagna così inclinato che a valle tocca quasi a terra., la chiamavano Montaratana. Sulla carta sta scritto Monte alla Tana. La tana di chi? Gli animali selvatici quassù sono rari: faine, tassi, qualche volpe. Forse era il ricovero di un uomo, un fuorilegge, chissà, un eremita.Si favoleggiava allora di un vecchio che abitava in una buca sulle pendici della Pania. Qualcuno affermava di averlo visto. Si diceva che fosse il discendente di una illustre e ricca casata lucchese: i Papanti. I Papanti che, si diceva, avevano le carrozze con le ruote d'argento; che possedevano casa e ville in tutta la Garfagnana, fino a Forno Volasco, a Petrosciana.” I Papanti hanno casa a Petrosciana, Vittorio, Cavaliere Priore di Santo Stefano a Pisa, sposò Rosa Catelani e nel 1872 fece costruire la torre presso l'oratorio di Santa Maria Maddalena, di cui l'avvocato Paolo Papanti-Pelletier, giudice unico del Vaticano, ha adesso amorevole cura. Ma questa è un'altra lunga storia che chiama in causa l'anno Mille, gli Agostiniani, il Caraglione, la Chiesaccia, la via Ducale e molto altro ancora. Torniamo di qua dal monte, all'Alpe di Pruno e di Cardoso, per sentire delle parole del Maestro Ancillotti, trascritte da un articolo pubblicato sul Dialogo nel giugno 1982, come scorreva per bambini e ragazzi il tempo in altura. Riprenderemo poi l'argomento con le testimonianze, raccolte oralmente, di Enrico Vangelisti e delle mie figlie. E' bene tenere a mente le date di nascita dei e delle testimoni: 1905, 1958, 1980, 1985. Il Maestro Ancillotti, che dimorava a Cupigliaia nei pressi dove adesso è il rifugio UOEI e dove fino a qualche anno fa si ergeva una maestosa fania di cui resta soltanto il nome, scriveva” Una parte del bosco era per me e per i miei amici il luogo dei giochi più divertenti anche se pericolosi. Gli alberi erano così fitti, che i loro rami si intrecciavano e noi passavamo da una pianta all'altra senza toccare terra: era il gioco delle scimmie. Ma v'era un albero sul quale non potevamo salire. Nemmeno un uomo vi sarebbe salito senza l'aiuto di una lunga scala. Era un faggio. In Versilia queste piante sono chiamate fanie. Mio padre mi diceva spesso: O bimbo, quella fania lì, quando sari grande io non ci sarò più, non la tagliare. Deve diventare più bella e più grande di quella che è sul colle......Anche la mia però era grande. E gli volevo bene, godevo del suo verde, del fruscio delle sue fronde, dei concerti che gli uccelli...specialmente al mattino facevano fra i suoi rami. La sua chioma sovrastava tutti gli alberi intorno. Dal bosco mio padre otteneva la legna per il riscaldamento e per cuocere i cibi, il carbone, i pali per le viti di una vignetta che avevamo vicino al paese, i rulli per calare i blocchi di marmo giù dalle cave e quando decise di fare una casa nuova, il bosco gli diede legna e legna per cuocere le pietre, perché diventassero calce viva. Vicino alla piazzetta dove innalzava le carbonaie ci sono ancora i ruderi della vecchia fornace. Anche il legname per le travi e le tavole del tetto e dei pavimenti era stato tratto dal bosco. Ma gli alberi che si trovavano a nord della casetta, noci, ciliegi e susini, non li tagliava mai o, se li tagliava, lo faceva con saggezza, perché essi ci riparavano dal vento che spesso si rovesciava con violenza giù dalla foce di Mosceta... Qua e là per i prati, isolati, c'erano dei ciliegi, ad uno dei quali c'era sempre attaccata una fune per l'altalena che chiamavamo “pisalanca”. Rosseggiavano, a un certo momento, di ciliegie, che noi ragazzi contendevamo alle cornacchie, a certi uccelli neri addomesticabili, che chiamavamo gracchi, grossi   come piccioni, che a stormi numerosi arrivavano dalle caverne che si trovano lungo i fianchi del Pizzo delle Saette. Scendevano giù a nuvoli sui ciliegi e sui prati e quasi quasi facevano sparire il verde dell'erba. A sera dai pendii della montagna calavano i greggi. Lo scampanio e il belato, insieme ai richiami dei pastori, si perdevano in un'eco sempre più debole, di colle in colle, di cresta in cresta, di burrone in burrone. Intanto nel cielo fattosi di velluto, s'accendevano le stelle e le lucciole scorrevano sui prati dai quali si alzava il canto notturno dei grilli. Sull'aia erbosa, seduti e col piatto sulle ginocchia, consumavamo poi la nostra cena. Era l'ora in cui, con gli occhi rivolti a quella parte di orizzonte dove era scomparso il sole, un senso di mistero e di infinito mi invadeva, alimentato anche dalle preghiere in comune che chiudevano ogni giornata.” E pregava anche Enrico, il Padreterno, sia al mattino che alla sera guidato dalla nonna, sia recitando spesso il rosario, dopo cena, con i vicini: il Neri e la Marina, che scendevano dalla Rocchetta, il Panelli, Duilio Leonetti, che era vicino di casa a Ranocchiaia. Per la Messa della domenica o raggiungevano il paese o salivano a Poggiogo quando don Nino la celebrava sull'altare costruito dal nonno Paolino presso la casa del Manetti. La scelta del luogo dipendeva dalla possibilità di poter radunare gente nella piazza; cosa impossibile a farsi nei pressi di altre dimore a bordo ciglio di strada.   Su quell'altare, negli anni settanta, durante i frequenti soggiorni a Poggiogo col gruppo giovanile, don Pietro Pierini celebrava messa all'arrivo e prima di tornare a valle. Tristissimo fu il rientro a Querceta in cui, allora non c'erano i cellulari, apprendemmo che in Spagna aveva funzionato la garrota. Poggiogo era per noi un luogo di pace e fratellanza. Anche Enrico il Padreterno lo prediligeva perché vi risiedeva in estate, con il nonno Paolino e la nonna Giuseppa, con Paolo Guidi, fratello del prete e di Sirio, amico coetaneo con cui giocava per ore ed ore a guardie e ladri con fuciletti di legno fabbricati dai rispettivi nonni, con lo slittino fatto di due tavole e un'asse inchiodata per rapide scivolate giù dal colle di Poggiogo, sul pratone tagliato di fresco fino alla fonte e poi... via di nuovo: uno davanti e l'altro dietro, a turno. Quando mia figlia Caterina, il 5 agosto 1994 ha voluto replicare l'impresa in un giorno in cui ospitavamo i vicini di ombrellone del mare, si è troncata il braccio destro: due mesi di gesso. Enrico, comunque, si ustionò a suo tempo con l'acqua calda del paiolo. A ciascuno il suo, direbbe Pirandello. Alle mie figlie e a Valentina di Enrico ed Anna, più adatti gli interminabili dondolii sull'altalena, i disegni con le tempere o i pennarelli, i giochi a mamme nella casetta di assi appoggiata alla piazza; le zucche svuotate ed intagliate che, nutrite di un tremolante lumino nel buio della notte, ghignavano come perfidi cadaveri; il suono stridente della gregiola suonata anche fuor dalla Settimana Santa, più adatte le bambole di stoffa realizzate nella nostalgia della tradizione e le ritualità per i baffardelli. Prima di ritirarci a dormire, in tutte le stagioni (ci fermavamo a lungo in estate, alcuni giorni per le vacanze di Pasqua e Natale e salivamo su ogni fine settimana) lasciavamo loro un pezzetto di formaggio, un ditale di latte, un fiocco di cotone, qualche filo di lana colorata, un grumo di cioccolata. Si sa che i baffardelli, che abitano nelle radici degli alberi o nei funghi, sono molto indaffarati a curare la mastite delle mucche, a districare il vello dei mufloni, a spargere la polvere sulle ali sgualcite delle farfalle e a ricostruire quelle incrinate delle mosche, a rammendare le ragnatele e molto altro ancora; un elenco interminabile di servizi che meritano un accurato sostegno. In cambio, al mattino, al posto dei viveri diligentemente prelevati, le bimbe trovavano piccolissimi doni intagliati nel legno o cuciti a mano: animaletti, vestitini per le bambole, minuscole copertine, anche qualche biscotto, libri di fiabe... Una fiaba la loro infanzia a Ranocchiaia che si colorava di bianco quando nevicava e la cucina luccicava di addobbi natalizi o quando, sotto il cielo vibrante di stelle, avevano il permesso di dormire nella canadese montata sul prato dietro casa o, per Santa Maria, allorché, rientrate dal   bagno nelle pozze giù in Deglio, si scatenava una feroce gara di gavettoni che impegnava senza risparmio anche i grandi. E poi le fiabe: ad Enrico le narrava nonna Esterina dopo aver sbrigato le faccende, tagliato e stivato il fieno nello streto, raccolto le verdure nell'orto, attinto l'acqua al pozzetto, acceso il fuoco, cucinato, lavati i panni nella conca del canale, appesili al filo, rassettato fuori e dentro casa, attaccato qualche bottone e rammendati gli strappi che il vivace nipotino non mancava di procurare.... a Chiara e Caterina, due decenni dopo, svolte le medesime incombenze o quasi di nonna Esterina (il tempo, per certi versi, si è fermato all'alpe) le narravo io, sedute tutte e tre attorno alla fiamma del focolare o, tolto il trabiccolo, al caldo sotto le coperte o stese sull'erba o in cammino: c'era una volta...e c'è e sarà......

Anna Guidi

L’articolo, modificato in pochi dettagli, è stato pubblicato sulla rivista “dal MARE alla MONTAGNA” . Numero unico 2019, pubblicazione dell’ A.S.D. CICLISTICA FORTE DEI MARMI.

Commenti

26-12-2019 - 17:12:17
Caterina Giannotti

A Ranocchiaia ho passato gli anni più belli della mia infanzia. Ricordo la curiosità nel cercare le tracce lasciate dai baffardelli, la doccia estiva all’aperto infondo all’orto del Padreeterno, la Giannina sempre accogliente e materna, i pomeriggi passati a giocare nella casetta di legno sotto la piazza insieme alla Chiara e alla Valentina, le corse nei campi a rincorrerci e la raccolta di fiori e piante per creare profumi homemade, il campeggio ed il tavolinetto costruito insieme alla Celeste....Tanti ricordi ed emozioni indelebili nel cuore!

26-12-2019 - 22:12:47
Olga Tartarelli

Buona cosa un altro articolo prima della fine dell'anno!
La storia di un microcosmo che per chi lo frequenta è l'ombelico del mondo. Storia di un alpeggio, dove ho sostato, ma anche storia materiale che tramanda saperi e sapienze a molti sconosciute. Concerto si, perché sono più voci a narrare come si viveva e si vive in quattro case ai piedi della Pania, fra prati e boschi. Una ricerca scritta con affetto che si mantiene nel solco della documentazione attraverso testimonianze, della tensione al vero, delle risposte a impliciti perchè.
Lunga vita al Balestrino per l'anno che verrà!!

27-12-2019 - 17:12:20
Marco Lapi

È bello ritrovare anche qui, Anna, questo tuo nuovo preziosissimo contributo dopo averlo letto sulla rivista “Dal mare alla montagna”, anch’essa sempre più preziosa in questi tempi grami per l’editoria in genere. Ed è bello che un tuo scritto riguardi finalmente Ranocchiaia, la tua Ranocchiaia ma anche un po’ la nostra, parte di quel mondo apparentemente anche fatato, se si vuole, ma meravigliosamente concreto e ricco di storia e di umanità che ancora adesso continuiamo a percorrere per dare alla luce la nuova edizione di “Apuane segrete”, e davvero non si finirebbe mai.
Sono stato tante volte tuo ospite a Ranocchiaia, con Barbara o Fiorenzo o entrambi, ultimamente con Serena e poi con Silvia. E sono state sempre occasioni d’incontro più vero e più bello, come se l’amicizia lì trovasse uno spazio più adeguato, e probabilmente è così. Ma ultimamente quest’angolo dell’Alpe di Pruno mi ha riservato nuove, eccezionali sorprese. Come quando a marzo di quest’anno siamo tornati per il sentiero del Colle di Cavazzola, che dopo l’alluvione ci era stato dato per impercorribile nella parte alta. O come poche settimane fa con Silvia, quando siamo riusciti ad attraversare il Canal Deglio, nonostante la notevole quantità d’acqua presente, dopo averne risalito il fianco sinistro orografico.
Ci sarà bisogno ancora di almeno due o tre ricognizioni per venire a capo di tutta la rete di sentieri ancora presenti, valutarne la percorribilità e decidere quali meritano di essere riproposti. Speriamo di farcela, certi che comunque il tuo punto d’appoggio non mancherà. Ma non è, non può essere solo affare nostro, ora che come dici le presenze all’Alpe si diradano e tante forze vengono meno. C’è un patrimonio da salvaguardare e tutti dobbiamo sentircene investiti, pur nella consapevolezza dei limiti di disponibilità e risorse. Ce ne sono purtroppo nel CAI, in Comune come nell’Unione dei Comuni, nonostante tutto l’impegno che continua a metterci l’amico Francesco Vettori. Ma l’importante è cominciare da qualche parte, poi magari chissà.
E allora faccio una proposta da sottoporre all’attenzione di tutti coloro che possono darci una mano: proprio quel sentiero che dicevo, che qualche ignoto ha segnato abusivamente (ma meritoriamente, diciamolo!) con i segni biancorossi usati dal CAI da Pruno fin oltre la marginetta di Santa Barbara, oggi purtroppo priva del suo bassorilievo, potrebbe essere in qualche modo completamente recuperato e “ufficializzato”, con tanto di diramazione per Tiglieta e Colle a Iapoli. È lo storico sentiero della Crepata, che sale per le cave di cipollino, utile a chi attorno al solstizio d’estate vuol ammirare il sole sorgere attraverso l’arco del Monte Forato, o la luna quando nel suo moto apparentemente imprevedibile decide di mostrarsi lì. È il sentiero della pietra scritta di don Cosimo Silicani che hai ritrovato e che devo ancora venire a vedere, della grotta scavata al Colle di Cavazzola che dopo esservi entrati incornicia perfettamente la veduta della Pania. È il sentiero che consente di deviare verso la sommità dell’Acquapendente per un tratto attrezzato non so da chi, ancora da finire di esplorare. È il sentiero più breve per chi infine da Pruno volesse raggiungere Ranocchiaia, che in futuro potrebbe essere integrato dal recupero di quello per la Scala Santa per Triccella e la Rave, nomi che ho riletto volentieri nelle citazioni che hai fatto di Pasquale Ancillotti e Manlio Cancogni, punti di riferimento ineludibili per capire l’anima di questi luoghi.
Mi fermo qui, magari ne riparleremo presto, ma intanto la proposta l’ho lanciata: cominciamo da lì e vediamo chi ci sta a dare una mano. Già nell’anno che presto verrà ce la potremmo fare.

27-12-2019 - 22:12:22
Dora Bonuccelli

Affabulante! Complimenti ad Anna ed anche a chi ha commentato!

27-12-2019 - 22:12:41
Fabio Barsacchi

Passare una giornata a Ranocchiaia, lontani dal frastuono e dai problemi quotidiani, è qualcosa che tutti dovrebbero provare... Non c’è niente di meglio di un buon pranzo nella magnifica casetta, riscaldati dal fuoco del camino e privilegiati dalla vista delle stupende Apuane... Emozioni uniche che meritano di essere vissute, quindi vi ringrazio Anna e Caterina per avermi fatto conoscere questo luogo fantastico...

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