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San Martino alla Cappella

Alla Pieve si giunge comodamente con la carrozzabile che sale da Seravezza e passa per Giustagnana o dalla ben più ripida strada che, muovendo sempre dal capoluogo, scorre lungo la valle del Serra dominata dal monte Altissimo. Arrivati ad Azzano, un altro chilometro ancora ed ecco comparire all'improvviso, in tutto il suo severo splendore, la Pieve adagiata sul verde del prato che la separa dal camposanto, attorniata da un sipario di monti dove si spalancano come bocche di giganti le cave, incorniciata dalla lastra del mare lontano, ora azzurro, ora grigio come le pietre dei muri e della tozza torre campanaria. Ma la via più suggestiva, da fare a piedi, la raggiunge da un'altra parte ancora; da Fabbiano dove si imbocca il tratto finale dell'antica mulattiera che si snoda dal fondovalle fra ciclopiche muraglie di sassi. Lo scenario è quello delle cave dismesse che fornivano “il bardiglio turchino”, menzionato più volte da Padre Agostino del Riccio e impiegato in lavori nelle chiese di Santa Croce e di San Marco in Firenze. Chiesa, canonica e campanile, schiacciati in alto e incombenti, si rivelano piano piano in tutta la loro imponenza. Appresso al vialetto di accesso al sagrato un altro gioiello: la Chiesa dell'Annunziata, una San Galgano apuana a cielo aperto e nuda di arredi dove, per tutta la bella stagione, risuonavano, prima del Covid, i colpi di scalpello di apprendisti scultori: dal 1983 è qui che la scuola internazionale Waldorf, di impronta steineriana, grazie all'accoglienza del parroco don Hermes Luppi. svolge i suoi seminari. La paternità del progetto rimanda al compianto don Florio Giannini che lo ideò assieme allo scultore cinese Tu Quo Ve. Don Florio, ferito dalla  “malinconica fatiscenza “ dell'Annunziata scrivendo nel 1992 ne ricordava i fasti trascorsi : “Oratorio delle Compagnie costruito sul recedente ospedale di Santa Maria, dopo il concilio di Trento , questo luogo visse due secoli di splendore accogliendo centinaia di laici dei villaggi circostanti: Azzano, Fabbiano, Giustagnana, Minazzana, specie in occasione della solennità del Corpus Domini , quando vi si radunavano per una processione che esprimeva mirabilmente l'appartenenza alla Cristianità della totalità degli abitanti” La processione del Corpus Domini si snoda ancora fra ciliegi in fiore, bianchi come le vesti della prima comunione: una primavera dell'anima. E in autunno, a novembre, quando cade la festa del Santo Patrono, l'”estatefredda dei morti” dirada le nebbie, quasi una replica del lontano miracolo. Del resto il luogo si chiama Cappella proprio per quel mantello che ad Amiens, correva il IV secolo, Martino tagliò in due per farne dono al povero infreddolito. Della Pieve si nota subito l'”occhio di Michelangelo” , il rosone che ingentilisce la severità della facciata, opera di Donato Benti, che di Michelangelo fu garante ed esecutore. Scrutando l'insieme sono visibili le tracce del loggiato danneggiato dai bombardamenti dell'ultima guerra; scomparsi, purtroppo, parte dei resti e scomparse pure le numerose lapidi che, apposte sotto la loggia, testimoniavano la fioritura in loco di egregie personalità dalla riforma Tridentina fino agli inizi del Novecento. In un pilastro si legge che il loggiato fu ultimato nel 1583. Quanto alla struttura attuale, a tre navate, rimanda anch'essa al Rinascimento, l' originaria, risalente avanti al Mille, presentava una sola navata. Il campanile, il cui unico indizio è un' enigmatica maschera apotropaica, ha l'imponenza di una torre longobarda, ipotesi confortata dalle origini del vicino paese di Azzano dove insiste il culto di san Michele e dove si favoleggia di una chioccia d'oro sepolta con la sua corte di pulcini, elementi che rimandano appunto ai barbari progenitori. Nell'interno, dove si accavallano vari interventi, elementi di rilievo di fattura protoromanica sono le monofore e la piletta dell'acqua santa, mentre la nicchia vuota di un altare denuncia il furto del quadro di Ranieri Leonetti. Con i soffitti a vela si occultarono invece, nel XVI secolo, le volte a capriata; l'impronta del secolo successivo è tramandata da varie tombe gentilizie, fra cui primeggiano quelle della famiglia Gasperetti. Molto più antica la lastra sepolcrale che, dinanzi all'altar maggiore, copre le spoglie di un alto dignitario, forse della Diocesi di Luni da cui la Pieve della Cappella dipese. Uscendo e raggiungendo il muretto del prato si para imponente davanti a noi l'Altissimo. E' ancora don Giovanni Dini, che alla Cappella fece ingresso come parroco il 5 gennaio del 1946 e vi rimase quattro anni, a farci da guida verso le cave e a raccontarci la storia dell' immagine mariana che lassù volle apporre a protezione di un lavoro duro come pochi altri.

Anna Guidi

 

La Madonna del Cavatore sul Monte Altissimo

Appena sbocciò la primavera volli andare a trovare i cavatori sul Monte Altissimo.

Ogni mattina, alle ore cinque , mi svegliava il passo cadenzato de cavatori che andavano al lavoro. Quasi due ore di cammino per arrivare sulla cava e iniziare il lavoro, un lavoro duro, difficile, pericoloso. Soltanto chi lo faceva poteva raccontarlo. Anche il ritorno era pesante: l'abitudine, l'allenamento e il desiderio di tornare a casa poteva renderlo più accettabile della salita. Era una giornata luminosa di primavera. Celebrata la S. Messa, partii e in poco tempo arrivai ai piedi dell'Altissimo. Ero passato dal “Palazzo” per parlare con il guardiano e il guardiano stesso volle accompagnarmi. 

Arrivammo insieme alla funivia che non serviva per portare persone ma solo materiale. Qualche volta ci salivano anche dei cavatori nonostante il divieto. 

Salii sul pianale, mi aggrappai ai ferri che lo sostenevano e , insieme al guardiano, dopo nove lunghi minuti di salita, arrivammo alla “Tacca Bianca”. I cavatori non credevano ai loro occhi: era la prima volta che vedevano un prete lassù! Cessarono per un momento il lavoro. Parlammo del lavoro stesso, dei pericoli; poi il capocava mi portò a visitare le varie parti della cava e ci fermammo a lungo sul bordo dove veniva estratto il marmo statuario. Mi spiegò le difficoltà dell'estrazione , il pregio e le qualità di quel marmo, per cui lo stesso Michelangelo lo aveva richiesto per le sue statue. Ci fermammo poi sulla lizza: il piano inclinato lungo il quale, sopra una slitta di legno, venivano calati i blocchi di marmo fino al luogo di carico. Quanti morti per quello scivolo!! Con parole toccanti mi parlò degli ultimi operai rimasti uccisi e dei motivi per cui potevano accadere certe disgrazie. Tornai ad Azzano commosso e affascinato dalla visita. Da quel giorno ho sempre considerato il Monte Altissimo come una grande mamma, che ha generato i figli più belli dei nostri grandi scultori. Diceva Michelangelo” In questo masso di pietra è nascosto un angelo: voglio tirarlo fuori!” Nella notte che seguì ci fu un temporale , che mii destò e non mi fece più dormire. Ripensavo a quella cava. Era rimasta come fotografata nella mente e mi suscitò il progetto più felice della mia vita: “La Madonna del Cavatore!” Al mattino mi alzai e, dopo la celebrazione della S. Messa, partii subito per Pietrasanta. Da mesi avevo fatto conoscenza dello scultore Leone Tommasi. Aveva il babbo sepolto nel cimitero della Cappella. Eravamo diventati amici e di incontrammo spesso. Mi recai nel suo studio e, appena seduto, raccontai alui la mia scalata all'Altissimo, quello che avevo provato lungo il cammino e..il mio progetto della Madonna del cavatore. Leone non ci pensò due volte. Mi disse. “Si fa” . E preso un cartone iniziò a disegnare. Io guardavi quelle mani che tracciavano in fretta linee, dalle quali scaturiva sempre più nitida l'immagine con sfumature più chiare e più scure che mostravano il rilievo e la bellezza dell'immagine stessa. Terminato il disegno , Leone mi disse: “Ti piace?” Risposi: Più la guardo e più la trovo bella”. Concluse Leone:”La faremo così”. La ditta Henraux mi regalò il marmo e il mese di Settembre l'immagine era finita.

Don Giovanni Dini

 

I CAVATORI

Rubini, nella notte gelida, le stelle.

Cielo spaziato.

Un senso: l'infinito.

Immobili le case. Sonno. Silenzio.

Scarpe chiodate martoriano la ghiaia
nelle sudice strade del paese.

E' l'ora. Una voce, dei lumi alle finestre.

Il calvario incomincia: partono i cavatori.

Un ponte, il primo altare,
di fili e pioli
gettato sopra un fiume fra le rocce;
e l'affanno nell'ascesa è la preghiera.

E vanno le ombre per l'impervio monte
stagliate contro il vuoto dell'abisso
sino a toccar le stelle.

Un vecchio, avanti, da secoli le guida premuroso col bastone.

E silenziose vanno le ombre stanche dal sonno
prive di sogni, di gioie.

Giù, ancora giù, più giù,
dai tristi casolari affumicati
all'unisono batte la domanda:

Torneranno?

Il vento fischia alto nella tecchia,
combatte fra i castagni nelle forre
gelido il suo passaggio nella cava,
fra immoti blocchi.

Martelli e spari! La montagna vive!

Martelli e spari: la montagna
e l'uomo.

Si spezzano le mani ai cavatori,
il sangue sprizza vivo
tinge le scaglie bianche,
pungenti spilli, il freddo
trafigge i pori.

Martelli e spari: i cavi sono tesi. Uno schianto e la morte.

Pende dall'alto minaccioso sopra le teste
un fragore: la morte.

Si spezzano le mani ai cavatori,
il sangue sprizza vivo;
la tosse è secca nella gola stanca,
il salario più magro,
e, in agguato, la morte;
ma una disperata volontà forgiata di miseria,
sorregge gli uomini.

Tornano.

E' presto. Troppo presto.

E le donne lo sanno.

Il sole ancora pallido carezza lo squallore delle case

E' troppo presto.

Lo sanno, le donne.

 

Lorenzo Tarabella 

La poesia fu scritta da Lorenzo Tarabella, poeta- cavatore nel 1951

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